Premessa
Ormai da anni il Prosecco è diventato un fenomeno.
È di questi giorni la notizia che la produzione 2020 ha superato i 500 milioni di bottiglie. Più di mezzo miliardo: detto così fa sicuramente più effetto.
Ma la vera novità dell’anno appena trascorso è il debutto della versione rosata: dal 31 luglio scorso è stata infatti ammessa anche la denominazione Prosecco Rosé, annunciata anche da una campagna pubblicitaria che proprio in questi giorni coinvolge stampe e televisione.
Sebbene se ne parli – e se ne beva – molto, mi sono accorto che c’è grande confusione su questo vino: non solo tra i semplici consumatori, ma anche tra gli addetti ai lavori. Provo quindi a fare un po’ di chiarezza.
(Se sapete tutto sul Prosecco saltate i prossimi paragrafi e andate subito alle conclusioni.)
I dettagli
Innanzitutto esistono due denominazioni, una DOCG e una DOC.
Perché? Perché, per tutelare il nome Prosecco e per difenderlo dai tentativi di imitazione che il successo ha inevitabilmente scatenato, si è deciso di estendere l’area di produzione dalle originarie colline di Valdobbiadene (in provincia di Treviso) a tutto il Friuli-Venezia Giulia, visto che proprio vicino a Trieste esiste un piccolo paesino che si chiama Prosecco.
Abbiamo quindi due disciplinari, che presentano differenze sostanziali.
Il primo è quello relativo alla DOCG Conegliano-Valdobbiadene Prosecco.
Sono identificate 3 denominazioni: Conegliano Valdobbiadene Prosecco, Conegliano Valdobbiadene Prosecco frizzante, Conegliano Valdobbiadene Prosecco spumante. Alle versioni “spumante” possono essere aggiunte le menzioni “sui lieviti”, “superiore”, Rive” e “superiore di Cartizze”.
L’area di produzione è ristretta ed è limitata a soli 15 comuni.
I vitigni ammessi sono la glera, che deve essere utilizzata per almeno l’85%, a cui può essere aggiunto un 15% di verdiso, bianchetta trevigiana, perera e glera lunga. Solo se presenti storicamente nei vigneti sono ammessi pinot bianco, chardonnay, pinot grigio e pinot nero (gli ultimi due vinificati in bianco).
Le rese, cioè la quantità di uva che si può produrre, per ettaro sono fissate in 13,50 tonnellate per il Conegliano-Valdobbiadene Prosecco. Scendono a 13 e 12 tonnellate per ettaro rispettivamente per la menzione “Rive” e per quella “Superiore di Cartizze”.
Il secondo disciplinare riguarda la DOC Prosecco, e prevede 4 denominazioni: Prosecco, Prosecco spumante, Prosecco spumante rosé e Prosecco frizzante.
L’area di produzione è decisamente estesa, e comprende le province di Belluno, Padova, Treviso, Venezia e Vicenza in Veneto (mancano solo Rovigo e Verona) e quelle di Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine in Friuli-Venezia Giulia (che sarebbe come dire tutto il territorio regionale!)
Anche per quanto riguarda i vitigni ammessi le maglie sono decisamente più larghe. Oltre al solito minimo dell’85% di glera, sono ammessi verdiso, bianchetta trevigiana, perera, glera lunga, chardonnay, pinot bianco, pinot grigio, pinot nero. Per la versione “rosé” la percentuale di glera può variare tra l’85% e il 90%, mentre la restante parte deve essere utilizzato il pinot nero, questa volta però vinificato in rosso.
Le rese per ettaro sono fissate a 18 tonnellate/ettaro per la glera, 13,5 tonnellate per il pinot nero.
E mi fermo qui, lasciando ai lettori più volenterosi la lettura dei disciplinari completi.
Conclusioni
Quindi sotto lo stesso nome convivono due denominazioni ben distinte.
Ed è proprio questo il problema.
Perché il consumatore medio – e non solo lui – non ha gli strumenti per distinguere tra le due.
(Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, il consumatore medio chiama Prosecco qualsiasi vino con le bollicine, sia esso Champagne o Franciacorta o quello-che-volete-voi.)
Capite bene che i due Prosecco presentano profonde differenze: storiche, territoriali, metodologiche.
Se guardiamo alla DOCG, siamo di fronte a un prodotto legato non solo a un territorio ben definito e con particolarità uniche, come ad esempio colline dalle forti pendenze, ma anche alle sue tradizioni, a un “saper fare” radicato da secoli, a una tradizione che ha saputo sfruttare le caratteristiche di vitigno e territorio.
La DOC è invece frutto di un’invenzione, un escamotage per salvaguardare la denominazione: soluzione che a mio parere è stata però peggiore del presunto male a cui voleva mettere rimedio, anche se i numeri sono tutti a favore di questa linea.
E la nuova versione rosé non fa che confermare il distacco da tradizione e territorio. Viene utilizzato un vitigno – il pinot nero – che sebbene presente in zona non si può certo considerare tradizionale; così come non è tradizione vinificarlo in rosso per poi aggiungerlo alla glera.
Insomma, è stato inventato un prodotto nuovo che sicuramente va incontro al mercato e che molto probabilmente accrescerà il successo del Prosecco.
Ma di quale Prosecco?