Le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste.
(Raymond Carver)
Qualche giorno fa Andrea Matteini pubblicava un post (leggi qui) in cui, con grande onestà intellettuale condita da un pizzico di ironia, dichiarava che non avrebbe più scritto di vino e si sarebbe limitato a venderlo.
Chapeau ad Andrea, dunque, e grazie per lo spunto sicuramente stimolante: se qualche settimana fa mi e vi chiedevo “di cosa parliamo quando parliamo di vino” (leggi qui) ora sono a domandarmi “perché scrivo di vino”?
La prima riposta è che ne scrivo come naturale conseguenza del fatto che principalmente ne parlo. L’espressione orale e quella scritta sono sorelle ed entrambe soggette a regole ben precise. Ma se la parlata può permettersi qualche licenza e a volte anche qualche imprecisione, la scrittura deve essere sempre attenta, rigorosa e precisa.
Parlando di vino sono spesso costretto a seguire la struttura piuttosto rigida dettata dalla didattica; la scrittura rappresenta invece una sorta di sfogo, di libertà, seppur anch’essa costretta in uno schema. Schema che per me è diventato piuttosto rigido, visto che da qualche tempo utilizzo spesso l’haiku (leggi qui) come mezzo per raccontare il vino.
Andrea nel suo pezzo, poi, afferma che chi scrive deve avere dei lettori.
Giusto, giustissimo.
Ma i lettori vanno anche cercati e conquistati, altrimenti verrebbe a mancare una spinta fondamentale alla scrittura. E, in una società dove la parola scritta sta perdendo sempre più terreno rispetto all’immagine, dove il pubblico ha sempre più fretta e si annoia dopo poche righe, soprattutto se queste appaiono sullo schermo di uno smartphone o sul video di un pc, tornare a un mezzo d’espressione che ormai pare antico e desueto diventa anche una sorta di lotta alla sopravvivenza.
Quindi scrittura anche come forma di resistenza: tentativo di raccontare, emozionare, soprattutto comunicare in modo chiaro, elegante, perché no appassionante. Cercando di ricordare che il protagonista non è schi scrive, ma ciò di cui si scrive: rispettandolo così come va rispettato il lettore.
Sperando che gli archeologi del futuro possano ancora imbattersi in pagine – cartacee o elettroniche – di bella scrittura e non solo in immagini o emoticons.
Concludo con una famosa pagina dei diari di Beppe Fenoglio. Uno che “faceva il mestiere” ma che sentiva il bisogno giustificarsene.
«Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convinzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma.
Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera.
La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.
Scrivo whit a deep distrust and a deeper faith.»
Purtroppo sempre meno persone scrivono e soprattutto sono in grado di farlo correttamente; correttamente significa seguendo le regole della grammatica, punteggiatura, sintassi, ma anche con proprietà di linguaggio e varietà di lessico.
Ma non solo: per scrivere bisogna avere delle idee, delle opinioni personali, la capacità di interpretare la realtà in modo originale non adeguandosi all’andazzo generale ed essere disposti anche a fare fatica….
Grazie Stefania.
Concordo su tutta la linea.
Li piace molto la tua ultima affermazione: trovare le parole giuste per dire le cose è faticoso.
Vanno pesate, ponderate, corrette e ricorette nel tantativo di essere più chiari e precisi possibile. E questo anche se non si fa letterarura ma “semplice” divulgazione.