I vini che non capisco

 

Se ti droghi ti capisco, perché il mondo fa schifo. Se non lo fai ti ammiro, perché sei in grado di combatterlo.
Jim Morrison

 

Ho la fortuna di poter assaggiare tanti vini. E anche la presunzione di essere ormai in grado di giudicare quando un vino è fatto bene e quando non lo è.
Ma ci sono dei vini che, seppur fatti bene – anche molto bene – non riesco a capire e ad apprezzare.

Sono vini che ho incrociato spesso e che, come sempre faccio, ho giudicato senza pregiudizi. Spesso, anzi, mi è capitato di degustarli alla cieca.
Sono vini unanimemente osannati da critica e pubblico: le classiche bottiglie che mettono tutti d’accordo.
Sono vini che non si possono neanche inquadrare in una precisa categoria, perché si va dal bianco al rosso, dal nord al sud, dal grande produttore e piccolo artigiano, dal vino convenzionale a quello “naturale”.

Faccio tre esempi, omettendo il nome: non per mancanza di coraggio ma per una sorta di etica personale. Se poi non potete vivere senza sapere quali sono, scrivetemi e (forse) vi risponderò.

Il primo è l’essenza del vino contadino: un rosso il cui nome evoca il mito e l’artigianalità. Poche e costose bottiglie, difficili da trovare e venerate quasi come reliquie.
Ne avrò assaggiate una decina: annate diverse, da quelle più datate a quelle più recenti. E non ho mai trovato un vino pulito, preciso, coinvolgente. Sempre qualche difetto, più o meno evidente. Anche aspettando con religiosa pazienza qualche ora o addirittura qualche giorno. Sfortuna? Può essere. Nel dubbio riproverò.

Il secondo è sempre un rosso, figlio di un territorio stretto tra mare e montagna. Chi lo produce è stato pioniere del biologico prima e del biodinamico poi, con grande rispetto della terra e dell’uva. Il vino è caldo, ricco, denso. Troppo per il mio gusto, che non disdegna le emozioni forti ma che rifugge i frappè alcolici. Che la confettura la preferisco spalmata sul pane e non colata in un bicchiere.

Il terzo è un vino che piace proprio a tutti: perché è fatto per piacere a tutti. Uno dei passiti italiani più celebrati. Un vino che ti seduce appena lo avvicini al naso, che ti promette sorsi e sorsi di assoluto godimento. Ma, appena lo assaggio, mi induce a cercare altro: troppa materia, troppo alcol, troppa glicerina. Quella che non è troppa, e che anzi manca, è la freschezza, che lo renderebbe sì bevibile all’infinito.

Gusto personale? Certo.
Snobismo? Forse.
Ma anche una ricerca altrettanto personale che dopo anni di assaggi mi ha portato a privilegiare, oltre alla pulizia, una piacevolezza fatta di bevibilità ed equilibrio, di leggiadria e sapore.
E che rifugge da una certa omologazione che, su piani molteplici e differenti, spesso infetta molti produttori.

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