Di cosa parliamo quando parliamo di vino

“Uno può vivere tutta la vita osservando le regole e poi a un certo punto non conta più un accidente.”
(Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore)

 

Chi mi conosce sa che amo i racconti.
Li amo perché nella loro apparente semplicità riescono a condensare storie, emozioni, caratteri.
Mi è venuto in mente il titolo della raccolta più famosa di Raymond Carver, un maestro del genere, quando ho iniziato a scrivere questo post.

Da più di dieci anni parlo di vino e insegno a degustarlo; utilizzando la didattica Ais, con la quale mi sono formato.
E non la rinnego, anzi. È quella che mi hai insegnato a riconoscere, apprezzare, raccontare il vino. È quella che pratico quando faccio lezione e che ormai automaticamente e quasi inconsciamente uso per capire un vino.
Ma è bello, e soprattutto utile, confrontarsi con altre visioni: ragione per cui continuo a leggere, approfondire, curiosare.
Per osservare come gli altri parlano di vino.

Negli ultimi mesi ho intensificato le letture per conoscere e capire come gli altri vedono e raccontano il vino: ne parlerò prossimamente, ora il punto è un altro.
Perché mi sono ormai reso conto che molto spesso quando raccontiamo il vino non è del vino che parliamo.

Dico sempre ai miei allievi che sono due le cose da chiedersi prima di iniziare a parlare di vino: innanzitutto a chi si sta parlando e, solo dopo, cosa si ha nel calice.

Invece molto spesso il protagonista della degustazione il degustatore: che trasforma quello che dovrebbe essere un momento formativo in uno show personale, dove inculcare le proprie idee e spesso per far emergere le proprie doti istrioniche, vere o presunte.
Con ciò non intendo dire che chi parla di vino debba essere un asettico ripetitore di nozioni – ci sono anche quelli, ma cadiamo in altre patologie – bensì che spesso e volentieri il vino da protagonista diventa comprimario.

Quindi, di cosa parliamo quando parliamo di vino?

Anche senza volerlo, parliamo di noi stessi. Ogni vino che degustiamo passa anche attraverso il filtro delle nostre esperienze, dei nostri gusti, dei mezzi culturali che utilizziamo per parlarne. È il nostro stile che, ribadisco, deve essere al servizio del racconto e non esserne il protagonista.

Parliamo a volte del territorio, di dove il vino nasce, del clima e della composizione del terreno, dell’andamento delle differenti annate. Correndo il rischio di apparire più geologi o meteorologi: e il baratro del tecnicismo è lì, a pochi passi.

O possiamo raccontare vitamortemiracoli del produttore, talvolta sfociando nell’agiografia.  Perché se è vero che un vino riflette la personalità di chi lo produce, questa non deve prevalere. Così come non deve essere eccessiva l’aneddotica, che al nostro pubblico sapere che abbiamo cenato con questo o quel produttore aprendo chissà quali mirabolanti bottiglie non è che interessi poi molto.

O magari indugiamo in paragoni e iperboli – ora vanno molto di moda quelli aerospaziali o “esplosivi” – che anziché esaltare le caratteristiche del vino lo uniformano e appiattiscono.

Oppure – orrore! – ripetiamo una trita filastrocca fatta di “si presenta”, “lacrime e archetti”, “secco-caldo-morbido” e via discorrendo che renderebbe noioso anche il più seducente degli Champagne.

Ancora, sfoggiamo un’erudizione che anziché essere al servizio del racconto diventa sterile sfoggio di cultura: arrivando a confondere, se non ad annoiare, chi ascolta.

Riassumendo.

Parliamo di tante cose, a volte troppe. E corriamo il rischio di far sparire il vino dietro le tante, troppe parole dettate dal nostro ego, dalla nostra voglia di apparire o – ed è purtroppo la maggioranza dei casi – l’incapacità di parlare di vino.

Tornando a Carver, il bravo comunicatore del vino dovrebbe imparare a nascondersi tra le parole, quasi ad annullarsi. E lasciare che sia il linguaggio chiaro e solo apparentemente semplice a farri tramite tra il vino e chi ha voglia di capirlo e apprezzarlo.

2 commenti su “Di cosa parliamo quando parliamo di vino”

  1. “a chi si sta parlando e, solo dopo, cosa si ha nel calice” è davvero un prezioso suggerimento. L’ho fatto mio, sono fiero di averlo imparato all’Ais e cerco sempre di metterlo in pratica.

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