La degustazione definitiva

(Ripubblico, riveduto e corretto, un pezzo che scrissi e pubblicai nel luglio del 2014. Parlavo di degustazione e linguaggio: credo che il tema sia ancora attuale, forse ancora di più.)

 

C’ero soltanto.
C’ero. Intorno
cadeva la neve.
Issa (1763-1828)

 

Generalizzando si può affermare che al mondo esistono due scuole per parlare di vino: quella anglosassone e quella latina (che poi vuol dire sostanzialmente francese e italiana). La prima si fa notare per il suo pragmatismo: informazioni precise, a volte quasi scarne, linguaggio chiaro, nessun volo di fantasia. Fantasia che invece quasi sempre pervade gli scritti dei degustatori latini, spesso più impegnati nel fare (o tentare di fare) letteratura che nel trasmettere informazioni.

Poi c’è l’haiku.

L’haiku è una componimento poetico tipico della letteratura giapponese. Si compone di tre soli versi di diciassette sillabe, che seguono lo schema 5/7/5. Le sue origini sono incerte, ma pare derivare dal waka, genere di poesia classica giapponese poi rinominata tanka – ovvero “poesia breve”. Fu Masaoka Shik che, alla fine del XIX secolo, inventò il termine, ricorrendo alla crasi dei termini haikai no ku (“verso di un poema a carattere scherzoso”). Ma il suo sviluppo formale e tematico risale al periodo Edo (1600-1868), quando numerosi poeti ricorsero a questo genere per descrivere la natura e i suoi effetti sulla vita dell’uomo. E proprio per la sua immediatezza e (apparente) semplicità l’haiku divenne una forma di poesia popolare, diffusa presso tutte le classi sociali.

Nessun titolo, temi semplici, niente fronzoli e assenza di retorica: queste le caratteristiche dell’haiku, composizione che richiede un’estrema sintesi per fissare i particolari salienti di ciò che si vuole descrivere.

E in un paese come il Giappone dove la nuova forma di letteratura è rappresentata dal keitai, ovvero racconti brevi da leggersi sul telefono cellulare in treno o in metropolitana, si capisce come il dono della sintesi e del rigore sia particolarmente apprezzato, oltre che nel DNA di quella cultura.

Ecco, l’haiku è la forma perfetta – anzi, definitiva – per spiegare un vino: per almeno due motivi.

Il primo è che l’haiku rappresenta il compromesso tra fantasia latina e rigore anglosassone. Si tratta di una poesia, e cosa c’è di più stimolante per la fantasia di questa forma di letteratura? Ma si tratta di una poesia con regole ben precise, che sommate alla brevità costringono lo scrittore a essere estremamente attento nella scelta delle parole.

E qui ecco il secondo motivo per cui l’haiku è perfetto: la sua estrema brevità richiede non solo il rigore di cui sopra, ma soprattutto necessita di un’estrema e approfondita conoscenza e comprensione dell’argomento da descrivere. Lo scrittore-degustatore deve entrare a fondo nel bicchiere per coglierne tutti gli aspetti e le sfumature. E occorre concentrarsi sì sui dettagli, ma avere una visione d’insieme netta e precisa.

Pensateci bene.

Raccontare la degustazione di un vino per iscritto è cosa difficilissima. Per un’unica e semplice ragione. Si parla a qualcuno che per la maggior parte delle volte non ha quel vino nel bicchiere davanti a se. (E, anche se lo avesse, non avrà più lo stesso vino: perché avrà una bottiglia diversa, perché adopererà un diverso bicchiere, perché saranno passati mesi se non anni e il vino si sarà evoluto (o involuto). Quindi occorre trasmettere a chi legge le informazioni essenziali del vino, evitando inutili descrizioni di profumi o altre sensazioni precluse al lettore.

Provocazione? Forse.

Ma è innegabile che un maggior rigore e soprattutto una maggior serietà sarebbero auspicabili per poter comunicare con efficacia il vino e, anche, tutto quello che gli sta attorno.

 

Degustare a distanza

In questo periodo fioriscono le degustazioni online e confesso di essermici cimentato anche io. Ognuno le affronta – giustamente – con il proprio stile e la propria personalità, riflessi anche nel modo di proporsi: chi in tuta, chi in felpa, chi in t-shirt, chi impeccabile in camicia e papillon.  Se i commenti sul look si possono rimandare ad altri tempi, sicuramente questo proliferare di degustazioni porta a delle riflessioni sul come raccontare il vino. E non solo ai tempi del Covid-19.

Se non è facile descrivere un vino quando lo si ha tutti contemporaneamente nel bicchiere, diventa compito arduo farlo quando chi ascolta il vino lo può solo immaginare. E allora come approcciarsi a questo tipo di degustazione? come raccontare qualcosa senza che i nostri interlocutori possano percepirlo con olfatto e gusto?

Alla domanda “chi ho davanti”, che ogni buon comunicatore dovrebbe farsi, se ne deve affiancare un’altra: “come faccio a raccontare qualcosa che il mio uditorio può percepire solo attraverso la mia voce”?

Già, come faccio?

Gli approcci sono tanti. Chi non si pone domande e degusta come se nulla fosse, parlando di violetta, ciclamino, cassis e grafite, acidità spiccata e tannini setosi. Chi racconta vitamortemiracoli del produttore, da quando in calzoni corti andava a vendemmiare col nonno a quando è sbarcato trionfale a New York. Chi analizza con meticolosità da geologo ogni stratificazione di terreno, spiegando perché il calcare che insiste su uno strato di ardesia conferisce a vino non so bene cosa.

Tutto giusto? Tutto giusto.

Ma alle due domande di cui sopra se ne deve aggiungere un’altra: “dove sto parlando”? Perché, anche in tempi di #iorestoacasa, i social non possono – e non devono – sostituire un’aula: altrimenti perderebbero quel fantastico potenziale comunicativo che rappresentano.

E allora, a mio parere, la parola d’ordine deve essere “semplificare”. Interventi brevi, poche ma chiare informazioni, descrizioni asciutte: insomma, far immaginare cosa si ha nel bicchiere senza ricorrere a termini troppo specifici. Ricordando che si è dei privilegiati a poter degustare certe bottiglie e che chi ci ascolta spesso prova una sana invidia, invidia che diventa frustrazione se non gli si da almeno l’illusione che qual vino lo stia bevendo con noi.

Sono tornato!

Sono passati più di tre anni dall’ultimo post su questo blog, nel frattempo anche scomparso per qualche mese dalla rete, visto che oltre ad averlo abbandonato mi ero anche dimenticato di rinnovare il dominio.

Nel corso di questi anni sono e mi sono successe tante cose, ma sono rimaste invariate la mia passione e la mia curiosità per i libri e per il vino. Passione e curiosità che, spinti anche da questa forzata inattività, hanno fatto sì che riprendesse forma l’idea di questo blog.

Non è stato facile riprendere tutto in mano e ricominciare praticamente da zero, soprattutto a livello tecnico. Ma siamo qui, e il girotondo di cui parlavo nel mio primo post – era l’aprile del 2014, e con un po’ di pazienza ripubblicherò anche quello che scrissi in passato – è pronto a ricominciare.