Esercizi di stile

Dopo il post relativo al parlare di vino (leggi qui) ho deciso di ripubblicare questo, scritto qualche anno fa. È un post a cui tengo molto, una provocazione che può aiutare a continuare a riflettere sul come raccontare il vino.

Nel 1947 Raymond Queneau scrisse un libro destinato a lasciare un segno, tanto da far sì che il titolo divenisse frase di utilizzo comune.
Esercizi di stile nasce da un’idea tanto semplice quando geniale: raccontare un episodio banale di vita quotidiana (un uomo incontrato su un mezzo pubblico e rivisto due ore dopo davanti a una stazione) in 99 modi differenti, giocando con la lingua e utilizzando una babele di figure retoriche, stili letterari, costruzioni sintattiche, giochi di parole…

Ovviamente ne caldeggio la lettura: per chi mastica poco il francese c’è l’ottima traduzione italiana di Umberto Eco, che conserva il testo a fronte. Ma non è del libro che voglio parlare.

In un blog che parla di vino e letteratura, Esercizi di stile è un formidabile spunto per giocare un po’, ma anche per riflettere su cosa e soprattutto come si scrive di vino.
Per cui – presuntuosamente autoreferenziale – ho preso la descrizione di un vino che scrissi qualche tempo fa (non perdete tempo a cercarla, non è quella la cosa importante) e mi sono messo a giocare.

Si tratta di un work in progress e le versioni sono molte di meno delle 99 di Queneau. Vogliono essere una provocazione e un punto di partenza per giocare e discutere, soprattutto sul come si parla di vino. E, in alcuni casi, anche un omaggio ad alcuni scrittori che amo particolarmente.

Quindi, se volete aggiungere ulteriori versioni a quelle che troverete di seguito, siete i benvenuti!

L’originale
Rubino dalle sfumature porpora. Naso deciso ed elegante che ben esprime il varietale del vitigno. Frutta dolce e polposa si intreccia a note speziate e a una mineralità di fondo che non cede mai. Leggere note tostate completano la tavolozza evidenziando liquirizia e una sfumatura di incenso. Il palato è ricco, molto saporito e di grande linearità, con una bella sapidità a integrare un’acidità da manuale. Chiude caldo e con precisi ritorni fruttati. Macerazione in acciaio, malolattica e affinamento in barrique e tonneau. Carré di agnello al timo.

Scheda Ais
Limpido, rosso rubino con sfumature porpora, consistente. Intenso, complesso, eccellente, fruttato, speziato, tostato, minerale, etereo. Secco, caldo, morbido, fresco, poco tannico, sapido, di corpo, equilibrato, intenso, persistente, fine. Pronto, armonico. 92.

 Antonio Albanese
È rosso.

James Joyce
Se solo me ne avesse lasciato un sorso di quel vinello foresto che si è scolato con le costolette di agnello e che brillava rubino nei bicchieri che mi aveva regalato la zia Dolores quando stavamo a Gibilterra e Poldy era ancora quell’uomo deciso ed elegante che mi ha fatto innamorare e che a tutti gli appuntamenti si presentava con un mazzo di fiori e sempre dico sempre della frutta dolce e polposa i cui effluvi si mescolavano alla sua pelle che sapeva di pepe e incenso e pietra bagnata e ricordo quell’alito che rinfrescava con pastiglie di liquirizia per nascondermi che aveva fumato ma io lo baciavo e li ricordo quei baci e la sua lingua calda e salata che mi esplorava tutta la bocca e sentivo il suo sapore misto di acciughe e fiori di campo.

Edonistico
È buono!

Alessandro Baricco
Era sempre rosso in viso.
Un rosso quasi rubino, con delle sfumature porpora a conferirgli un’insolita giovinezza.
Ma era il profilo a renderlo interessante.
Quel naso deciso.
Elegante.
Così tipico della sua razza che non potevi sbagliarti.
Sulle gote la pelle lucida come metallo che pareva una pesca matura e succosa.
La scia del suo dopobarba. Incenso. Vetiver. Aghi di pino.
La sua voce calda.
Il suo modo di parlare. Sempre diretto. Sprezzante. Tagliente.
E quel modo di tagliare l’agnello. E poi di mangiarlo.
Inconfondibile.

Anagrammi
Deambulata freni porro pus urlo. Dipendendo elemosine noi rieleggereste sbatacchiavate ville. Eccellereste infezioni paracadutata posto stipo adenoidi fulminee ho ne nei raccomandata. Eleggerà lo otto scampanellavate un tetto zonzo idealizzando iniqui veri adescata fermi un suino. Deraglerei otto pistilli polo raccomandata rioni abdicata nel pulsino iene lui madida tracannata urge. Accucciando definirei hotel riporti trust. Camiciaia noi affaticare eminente coerenza equini non traballata uomo. Araldica grillo monte.

Haiku/1
Freddo rubino
Variata tavolozza
Agnello cotto

Haiku/2
Pietra bagnata
Sorso fatto spirito
Calda freschezza

Haiku/3
Bel varietale
Polposa liquirizia
Barrique e tonneau

Luca Maroni (non posso proprio esimermi!)
Rubino è abito visivo esemplare della sua concentrazione totale. Incommensurabile nella potenza in dolcezza della confettica albicocca sua. Confettica giacché di dolcezza esondante del pari della suadentissima glassa del confetto in Sulmona. Capolavoro assoluto di viticoltura cremosa, polposa, di potenza e viscosità definitivamente, compiutamente imperiosa. Natura e uomo qui inscindibilmente, frutto speziosamente, clorofillosamente avvinti. Non una macchia, un’alterazione, una pausa od un neo nell’emissione, non un vizio od un aspetto perfettibile nell’effusione, con la risultante che è una performance sensoriale di perfetta souplesse olfattiva e palatale. Uno fra i vini più ricchi equilibrati e nitidi che ho mai avuto l’onore di incontrare. Pura clorofilla di nerissima uva e del più candido rovere d’elevazione che ci sia. Con il suo distillato di ricchissimo frutto che ha la dolcezza del burro di cacao e la polposità sublime della purea della polpa delle more. Un capolavoro anzitutto viticolo, quindi enologico, con un filologico, tecnico rispetto di codesta stupenda forza della natura.

Wine Spectator
Bursting with sweet cherry and blackberry, licorice and spice flavors. Ripe, dense, balanced, full bodied red, show the structure to age. Best from 2015 through 2020.

Lipogramma in “a”
Rubino con toni vermiglio. Profumo deciso e distinto che ben esprime il genere del vitigno. Frutti dolci e polposi si uniscono con note pungenti e pietrose che non cedono per niente. Leggere note fumose rifiniscono il dipinto mettendo in luce stecco nero e soffi di incenso. Il sorso è ricco, molto gustoso e rettilineo, con un belle note di cloruro di sodio che sostengono un brusco libresco. Chiude cocente e con precisi ritorni del frutto. Unione di bucce ed essenze in inox, riduzione del brusco fisso e riposo in botti di 225 e 500 litri. Lombo di montone con timo.

Lipogramma in “e”
Rubino con sfumatura porpora. Naso risoluto, raffinato: un paradigma. Frutta amorosa, polposa, abbraccia profumi di fragranza unita a una rocciosità di fondo mai doma. Sottili soffi tostati chiudono la tavolozza dando risalto a liquirizia con una sfumatura di olio aromatico. Il palato si dimostra ricco, molto saporito, di ampia uniformità, con una magnifica sapidità a dar supporto a un’acidità didascalica. Chiusura calda, con giusti ritorni fruttati. Contatto buccia/polpa in acciaio, fa la malolattica poi affina in botti da 225 o 500 litri. Costata di cucciolo ovino al timo.

Lipogramma in “i”
Rosso gemma dalle sfumature porpora. Naso tosto ed elegante che ben racconta la razza dell’uva. Frutta dolce e polposa è fusa a note drogate e sassose che perdurano salde. Leggere note tostate completano la tavolozza regalando tubero scuro e una sfumatura sacra. La bocca è opulenta, molto gustosa e presenta grande coerenza, con una bella nota salata a sostenere una freschezza da manuale. Occlude caldo e con un netto retrogusto fruttato. Macera nel metallo, perde la nota fresca e matura nel legno angusto e tonneau. Carré dell’agnello all’arbusto odoroso.

Lipogramma in “o”
Pietra vermiglia dalle sfumature cardinalizie. Fragranza decisa ed elegante che ben esprime il varietale dell’uva. Frutta amabile e densa si intreccia a richiami speziati e a una mineralità di base scevra da cedimenti. Leggeri cenni bruciati a chiudere la palette, mette in evidenza liquirizia e una sfumatura di spezia sacra. La tessitura gustativa è ricca, estremamente stuzzicante e di grande linearità, presenta una bella sapidità a integrare un’acidità da manuale. Chiude bruciante e dai precisi rimandi fruttati. Macera in vasche metalliche, perde acidità e affina in barrique e tini da 500 litri. Carré di bebè di ariete alla spezia lamiacea.

Lipogramma in “u”
Rosso pietra dai riflessi porpora. Naso deciso ed elegante che ben esprime il varietale del vitigno. Ovarie delle angiosperme dolce e polpose si intrecciano con note speziate e con la mineralità di fondo che non cede mai. Leggere note tostate completano la tavolozza evidenziando radice nera e soffi di incenso. Il palato è ricco, molto saporito e di grande linearità, con la bella sapidità a integrare l’acidità paradigmatica. Termina caldo e con precisi ritorni di ovario delle angiosperme. Macerazione in acciaio, malolattica e affinamento in botti piccole e da 500 litri. Carré di agnello al timo.

Istruzioni per degustare il vino (omaggio a Julio Cortázar)
Procuratevi le seguenti cose: una bottiglia, un cavatappi, un bicchiere. E degli amici, che è triste bere il vino da soli.
Tenendo ben salda la bottiglia e utilizzando il cavatappi, apritela e versatene un po’ del contenuto nel bicchiere. Non troppo, però, diciamo sufficiente a riempirne la quarta o la quinta parte.
Impugnate ben saldo il bicchiere e guardate il vino: la limpidezza, le sfumature di colore. Poi ruotatelo leggermente, osservate le lacrime e gli archetti che si formano sulle pareti e valutate la consistenza del vino.
Ora avvicinate il calice al naso e inspirate. Poi allontanatelo, fatelo ruotare (poco, per carità, non è una lavatrice) e riavvicinatelo alle narici. Ripetete l’operazione più volte a intervalli regolari e annotare i profumi che percepite.
È arrivato il momento di assaggiare il vino. Prendetene un piccolo sorso, fatelo vagare per il vostro cavo orale, quasi a perdersi, e poi deglutitelo. Percepirete lo zucchero (ammesso ci sia), l’alcol, la morbidezza, l’acidità, il tannino e la sapidità. Poi valutatene la persistenza e la qualità.
Mettete tutto assieme e date un giudizio complessivo e, se proprio dovete, anche un voto.
Poi dimenticate tutto quello scritto sopra e godetevelo.

Di cosa parliamo quando parliamo di vino

“Uno può vivere tutta la vita osservando le regole e poi a un certo punto non conta più un accidente.”
(Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore)

 

Chi mi conosce sa che amo i racconti.
Li amo perché nella loro apparente semplicità riescono a condensare storie, emozioni, caratteri.
Mi è venuto in mente il titolo della raccolta più famosa di Raymond Carver, un maestro del genere, quando ho iniziato a scrivere questo post.

Da più di dieci anni parlo di vino e insegno a degustarlo; utilizzando la didattica Ais, con la quale mi sono formato.
E non la rinnego, anzi. È quella che mi hai insegnato a riconoscere, apprezzare, raccontare il vino. È quella che pratico quando faccio lezione e che ormai automaticamente e quasi inconsciamente uso per capire un vino.
Ma è bello, e soprattutto utile, confrontarsi con altre visioni: ragione per cui continuo a leggere, approfondire, curiosare.
Per osservare come gli altri parlano di vino.

Negli ultimi mesi ho intensificato le letture per conoscere e capire come gli altri vedono e raccontano il vino: ne parlerò prossimamente, ora il punto è un altro.
Perché mi sono ormai reso conto che molto spesso quando raccontiamo il vino non è del vino che parliamo.

Dico sempre ai miei allievi che sono due le cose da chiedersi prima di iniziare a parlare di vino: innanzitutto a chi si sta parlando e, solo dopo, cosa si ha nel calice.

Invece molto spesso il protagonista della degustazione il degustatore: che trasforma quello che dovrebbe essere un momento formativo in uno show personale, dove inculcare le proprie idee e spesso per far emergere le proprie doti istrioniche, vere o presunte.
Con ciò non intendo dire che chi parla di vino debba essere un asettico ripetitore di nozioni – ci sono anche quelli, ma cadiamo in altre patologie – bensì che spesso e volentieri il vino da protagonista diventa comprimario.

Quindi, di cosa parliamo quando parliamo di vino?

Anche senza volerlo, parliamo di noi stessi. Ogni vino che degustiamo passa anche attraverso il filtro delle nostre esperienze, dei nostri gusti, dei mezzi culturali che utilizziamo per parlarne. È il nostro stile che, ribadisco, deve essere al servizio del racconto e non esserne il protagonista.

Parliamo a volte del territorio, di dove il vino nasce, del clima e della composizione del terreno, dell’andamento delle differenti annate. Correndo il rischio di apparire più geologi o meteorologi: e il baratro del tecnicismo è lì, a pochi passi.

O possiamo raccontare vitamortemiracoli del produttore, talvolta sfociando nell’agiografia.  Perché se è vero che un vino riflette la personalità di chi lo produce, questa non deve prevalere. Così come non deve essere eccessiva l’aneddotica, che al nostro pubblico sapere che abbiamo cenato con questo o quel produttore aprendo chissà quali mirabolanti bottiglie non è che interessi poi molto.

O magari indugiamo in paragoni e iperboli – ora vanno molto di moda quelli aerospaziali o “esplosivi” – che anziché esaltare le caratteristiche del vino lo uniformano e appiattiscono.

Oppure – orrore! – ripetiamo una trita filastrocca fatta di “si presenta”, “lacrime e archetti”, “secco-caldo-morbido” e via discorrendo che renderebbe noioso anche il più seducente degli Champagne.

Ancora, sfoggiamo un’erudizione che anziché essere al servizio del racconto diventa sterile sfoggio di cultura: arrivando a confondere, se non ad annoiare, chi ascolta.

Riassumendo.

Parliamo di tante cose, a volte troppe. E corriamo il rischio di far sparire il vino dietro le tante, troppe parole dettate dal nostro ego, dalla nostra voglia di apparire o – ed è purtroppo la maggioranza dei casi – l’incapacità di parlare di vino.

Tornando a Carver, il bravo comunicatore del vino dovrebbe imparare a nascondersi tra le parole, quasi ad annullarsi. E lasciare che sia il linguaggio chiaro e solo apparentemente semplice a farri tramite tra il vino e chi ha voglia di capirlo e apprezzarlo.

Champagne discount

“Lo Champagne aiuta la meraviglia.”
(George Sand)

 

Il mio amico Carlo per lavoro calcola i prezzi.
E quando ci troviamo a condividere qualche bottiglia facciamo un gioco: chiederci quanto saremmo stati disposti a pagarla.
Perché il vino è poesia, storia, cultura. Ma è anche lavoro e impresa e chi lo produce (ma anche chi lo vende o lo racconta) ci deve campare.

Ho pensato a Carlo e al nostro gioco quando ho assaggiato una vino salito agli onori della cronache dei social qualche settimana fa, quando un’instagrammer ha lanciato la provocazione. Provocazione raccolta da molti e che faccio, seppur in ritardo, mia.

Il vino in questione è uno Champagne, che sugli scaffali della LIDL era in offerta a 10 euro e 99 centesimi. Un prezzo decisamente allettante, che ha indotto molti all’acquisto. (Per onor di cronaca la bottiglia generalmente viene venduta a 16 euro e spicci).

Lo Champagne si chiama Comte de Senneval ed è prodotto dalla Maison Burtin, azienda del gruppo Lanson. Tecnicamente Burtin è un MA, cioè una Marque Auxiliare (o d’Acheteur), un’azienda che si fa produrre il vino da terzi e poi lo commercializza col proprio marchio, spesso nella grande distribuzione.
Fatto questo che giustifica il prezzo decisamente competitivo e allettante.

L’etichetta, oltre a dirci che si tratta di un brut con il 12.5% di alcol, non fornisce troppe indicazioni: manca la data di sboccatura, fondamentale per capire se stiamo acquistando uno Champagne ancora vivo e fresco oppure un prodotto che è rimasto troppo tempo nei magazzini o – peggio ancora – sullo scaffale, e che il supermercato ha necessità di vendere quanto prima. Un “1803” in retroetichetta potrebbe far pensare al marzo 2018, ma non ne ho certezza.

Ma l’hai assaggiato? sento che chiedono i miei lettori.
Certamente, e non mi è piaciuto.

Il colore non era invitante: privo di luminosità nonostante una buona presenza di bollicine, e tendente a un paglierino scuro, possibile indicatore di una leggera ossidazione.
Avvicinando il calice al naso sono stato letteralmente aggredito da una pungenza eccessiva che me l’ha immediatamente fatto allontanare. Superato questo impatto poco da segnalare: una leggera ossidazione, un po’ di frutta e stop.
L’assaggio conferma le note ossidate ricorda una limonata gasata lasciata però all’aria per giorni.
Sarò snob e ho anche la fortuna di essere ben abituato, ma non sono riuscito a finire neanche il calice.

Quali sono le conclusioni che si possono trarre da questa esperienza?

La prima.
Un neofita, attratto dal prezzo, si troverà di fronte a un vino che non rappresenta affatto il territorio e la tradizione dello Champagne; e ne rimarrà sicuramente deluso. (Cosa che avviene anche con certi Barolo o Brunello spesso svenduti sugli scaffali di supermercati o autogrill).

La seconda.
Con gli stessi 11 euro, sempre nella grande distribuzione e spesso anche in offerta, si possono acquistare dei discreti Franciacorta, Trento o – perché no – un Cava, anche di produttori blasonati. Avendo l’opportunità di bere dei vini che rappresentano sicuramente di più la storia e il luogo dove vengono prodotti.
E magari scatterà quel pizzico di curiosità che farà avvicinare il consumatore poco esperto a etichette più importanti.

Banalità

“Tu inventa quello che ti va
Vedrai che a loro a loro basterà
Tanto alla fine resta la
Banalità, banalità”
(Daniele Silvestri, Banalità)

 

Tra i tanti volti noti scomparsi nel 2020 c’è stato Philippe Daverio, grande esperto d’arte, grande comunicatore e anche grande appassionato di enogastronomia. La definizione di dandy gli sarebbe calzata a pennello: per il suo saper vivere e per il suo anticonformismo, evidenziato da un abbigliamento che sapeva sfoggiare con grande disinvoltura nonostante un fisico non proprio slanciato. Perché il dandy è chi, nonostante uno stile di vita eccentrico e sopra le righe, non appare mai ridicolo ma riesce anzi ad assurgere a modello.

Visto che nulla accade per caso, quasi contemporaneamente alla scomparsa di Daverio mia sorella, attratta dalla recensione apparsa sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore, mi regala un libro scritto da Giovanni Giaccone e che si intitola Dandismo alcolico (sottotitolo Meditazioni sul bere consapevole).

Il titolo mi piace, la recensione è entusiasta, l’edizione curata: non mi resta che leggerlo, carico di aspettative.

Aspettative che rimangono deluse dopo poche pagine. Scrittura sciatta, punteggiatura e virgolette buttate a casaccio, editing inesistente. E i contenuti? Una sequela di banalità da discorsi in cosa alla posta. Banalità che non vengono salvate neanche dalle tante – troppe – citazioni di Gino Veronelli e Mario Soldati.

Insomma, un tentativo di semplice divulgazione che si trasforma in triste approssimazione.

E il dandy? Il dandy, per sua natura, non si abbassa al volgo, semmai col suo esempio cerca di innalzarlo. E lo fa con ricercata eleganza, curando il particolare ma sempre attento alla sostanza, senza la quale tutta la sua sofisticata impalcatura crollerebbe miseramente.

Oscar Wilde, il prototipo del dandy, disse una volta “Ho lavorato tutta la mattina alla bozza di uno dei miei poemi, e ho tolto una virgola. Al pomeriggio l’ho rimessa.” Senza arrivare a questo estremismo provocatorio, è una frase che chiunque abbia velleità di scrittura dovrebbe avere impressa nella memoria. Altrimenti non c’è dandismo che tenga.

Vino in abbinamento.
Il dandy non ha bisogno di ostentare ciò che beve, perché ha classe a sufficienza per elevare (quasi) tutto ciò che porta alle labbra. E allora anche un vino giovane e fresco potrà portare godimento. Il segreto, che il vero dandy e il vero sommelier dovrebbero conoscere è berlo al momento e soprattutto con la compagnia giusta.

I Magnifici Dieci

Non mi sono mai cimentato in classifiche, anche se confesso che le leggo sempre: mi divertono e rappresentano spesso un ottimo spunto di riflessione e discussione.

Ma c’è sempre una prima volta e in quest’anno strano ci ho provato: riprendo quindi le pubblicazioni sul blog proprio con l’elenco ragionato(?) dei migliori 10 vini che ho bevuto nel 2020.

So che non vedete l’ora di sapere quali sono, ma prima una piccola precisazione. Ho scritto “bevuti” e non “assaggiati”: la differenza non è così sottile e anche se non comporterebbe uno stravolgimento dell’elenco, sicuramente lo modificherebbe.

E ora eccoli, i magnifici 10, in rigoroso ordine alfabetico: è già stato difficile selezionarli: metterli anche in ordine di preferenza sarebbe stata impresa fuori dalla mia portata.

Ar.Pe.Pe – Valtellina Superiore Sassella Riserva Rocce Rosse 2001
Il colore che ti fa rimanere incantato a fissare il calice.
Il naso che sussurra ma lo fa interminabilmente: sempre e solo cose belle.
Il sorso che vibra, seduce e ti accompagna per ore.

Cantina Terlano – Alto Adige Terlano Vorberg Riserva 2002
Il miglior vino bianco italiano, in forma smagliante.
Serve aggiungere altro?

Cascina Val del Prete – Roero Vigna di Lino 2015
Elegante. Sapido. Equilibrato. Dissetante.
La paradigmatica essenza del Roero.

Marco De Bartoli – Terre Siciliane IGT Grillo 2014
Il tramonto sul mare racchiuso in bottiglia.

Haderburg – Alto Adige Metodo Classico Hausmannhof Brut Riserva 2009
I paragoni si potrebbero sprecare, e anche importanti.
L’oro predomina, e non solo nel colore.
Un fresco incendio dei sensi.

Le Piane – Boca 2006
Vino sfarzosamente poliedrico, che sorprende di minuto in minuto, di ora in ora, di giorno in giorno.
E non esagero: uno dei pochi vini che non teme di sfidare il tempo a bottiglia aperta.

Masi – Vino da Tavola Bianco Campociesa 1970
Una reliquia.
Un recioto che ha conservato intatte forza ed eleganza, impreziosite da una fascinosa patina fané.

Poderi Colla – Langhe Bricco del Drago 2005
Il territorio declinato in tutte le sue forme possibili.
È un dolcetto, ma non ditelo a nessuno.

Produttori del Barbaresco – Barbaresco Montestefano Riserva 2008
Considero Montestefano il cru più tipico di Barbaresco: questa bottiglia ne è l’essenza più profonda.
La terra che si fa frutto e calore.

Zidarich – Venezia Giulia IGT Vitovska “V Collection” 2009
Da un paesaggio dominato dalla roccia un vino che pare esserne una spremuta.
Vibra, ristora, rinfresca.
Il godimento che si fa conforto.

Post Scriptum polemico: tra questi vini alcuni potrebbero essere definiti “naturali”. Sarebbe bello, ovviamente alla cieca, che qualche professore vero o presunto sapesse indicare quali.

Mio fratello è figlio unico

Come il fratello di Rino Gaetano, che “non ha mai criticato un film
senza prima vederlo” io non parlo di un vino senza prima averlo bevuto.

Sono ormai anni che pratico e predico un principio: il vino prima va assaggiato e giudicato e solo dopo, se proprio si vuole, si può indagare su come viene prodotto. Principio purtroppo rinnegato dai più, che preferiscono bere seguendo (stupidi) preconcetti.

Visto che anche i produttori di vino in brik avevano puntato sul biologico, ho deciso di assaggiare uno di questi vini; per cui – vergognandomi un po’, lo confesso – ho acquistato una confezione di San Crispino: per la precisione un IGP Terre Siciliane, ottenuto da uve catarratto e inzolia, 12% di alcol, certificato biologico. Per non esagerare e anche per non sprecare il vino, mi sono limitato alla confezione da 250 cl che, per completezza di cronaca, ho pagato 86 centesimi di euro.

 

(Apro qui una breve parentesi, che potete tranquillamente saltare se sapete già cosa è il vino biologico. Il vino biologico è stato definito dal regolamento Europeo 203/2012, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 9 marzo 2012. Tra le tante regole elencate, le principali prevedono di coltivare l’uva senza l’uso di sostanze chimiche di sintesi e di organismi geneticamente modificati; in cantina sono vietate alcune pratiche che potrebbero alterare la natura del vino, come per esempio osmosi, dealcolizzazione, trattamenti termici. C’è poi una limitazione all’utilizzo di anidride solforosa, che non può superare i 100 mg/l per i vini rossi e i 150 mg/l per i bianchi. Tutto questo deve essere poi certificato da un ente autorizzato.)

Prima di raccontarvi il vino, occorre però fare una premessa.

I vini in brik, spesso demonizzati e derisi da molti addetti ai lavori, hanno una loro ben precisa fascia di mercato. Fascia che non è rappresentata solo dai clochard che cercano l’oblio in vini dal basso prezzo; il vino in brik, per la sua praticità e per il suo costo limitato, è acquistato da chi nel vino cerca ancora non tanto il piacere bensì un alimento, capace di apportare calorie e – perché no – quel minimo di ebbrezza che rende certi lavori pesanti più sopportabili. Ed ecco che, consci del loro successo e soprattutto ben informati su quale sia il loro consumatore tipo, le aziende hanno diversificato i loro prodotti, arrivando anche a cavalcare l’onda del biologico, uscito da tempo dalla nicchia iniziale e ormai presente in massa anche sugli scaffali della grande distribuzione.

Ma veniamo al vino.

Non è la prima volta che assaggio questa tipologia: questo mi colpisce per il colore, un paglierino decisamente più intenso della media, molto probabilmente dovuto alla provenienza “calda” delle uve. Ho poi usato due bicchieri, uno molto capiente per esigenze fotografiche e uno più piccolo e più adatto a un vino bianco semplice. Non ci sono state però grandi differenze: in entrambi i calici profumi tenui di fiori e frutta, e un piacevole finale erbaceo. Per essere più che corretto ho anche atteso qualche minuto, ma il vino non ha concesso nulla di più. Ma è al palato che esce il vero punto debole: sicuramente non sgradevole, anzi piacevole e rinfrescante, specialmente in una calda serata estiva. Ma praticamente senza nessun gusto e nessuna persistenza.

Per non farmi mancare nulla ho anche provato a versarlo in un normale bicchiere senza stelo – condizione in cui ritengo venga bevuto nella stragrande maggioranza dei casi – senza però rilevare sostanziali differenze.

Va detto però che si tratta di un vino tecnicamente ineccepibile, senza nessun tipo di difetti. (Così forse sfatiamo una volta per tutte il falso mito che si tratti di vinacci puzzolenti.)

Qualche anno fa avevo già fatto un assaggio simile, confrontando una dozzina di campioni. Devo ammettere che la qualità è cresciuta: il vino assaggiato è decisamente più preciso e pulito, ma soprattutto non presenta quel sentore di cotto dovuto alla pastorizzazione. Che la certificazione Bio sia servita a qualcosa?

Divertimento? Provocazione?

Credo che chi si occupa di vino debba cercare di avere una conoscenza più ampia possibile di cosa offre il mercato, ovviamente essendo poi libero di scegliere cosa bere nella sua vita privata o cosa proporre alla sua clientela.

Ma il Sommelier deve anche e soprattutto essere un divulgatore e fare cultura del vino. E per fare ciò deve avere ben chiaro il perché un certo tipo di pubblico fa delle scelte quando acquista il vino. Tolta quella fascia di pubblico che purtroppo è costretta a bere vino da pochi soldi, c’è sicuramente una fetta più ampia di pubblico che ha solamente bisogno di scoprire che oltre al brik c’è altro: decisamente più appagante e spesso non così costoso come si possa immaginare.

Quindi scendiamo dai piedistalli – spesso anche poco solidi – e buttiamo via ogni snobismo: c’è un pubblico che ci aspetta e che possiamo istruire e soprattutto far divertire.

Farina o pistole?

Ricordate gli assalti ai supermercati all’inizio del lockdown? Con pasta, farina e lievito a riempire i carrelli degli italiani, timorosi di rimanere con dispensa e stomaco vuoti. D’altronde, se tra le icone del nostro cinema troviamo Alberto Sordi e Totò che si ingozzano di spaghetti una qualche ragione storica ci dovrà pure essere.

Ricordate invece cosa è stato preso d’assalto negli Stati Uniti? Bravi: le armerie. E se tutti sappiamo che negli USA è possibile acquistare un’arma con la stessa facilità con cui da noi si compra un etto di prosciutto, la cosa ci stupisce sempre: forse perché non riusciamo a capire la ragione per cui anziché di farina gli statunitensi preferiscano rifornirsi di colt o fucili automatici.

La lettura de Il figlio, opera seconda di Philipp Meyer pubblicata nel 2013, sicuramente può aiutare a comprendere questo fenomeno.

Immaginate una sorta di Cent’anni di solitudine dove il realismo magico di García Márquez perde tutta la sua magia per diventare cruda realtà. I Buendía qui si chiamano McCullough e vivono in Texas, e anche qui la saga si dipana per più generazioni, con un provvidenziale albero genealogico a inizio libro ad aiutare.

Quella dei McCullough è una storia di violenza, sempre cruenta e spesso gratuita, unico modo per risolvere ogni problema e abbattere ogni ostacolo gli si pari davanti. A partire dal capostipite Eli, rapito in giovane età dagli indiani, per arrivare a Jeanne Anne. L’unico che cerca – invano – di porre fine alla legge delle armi è Peter, il figlio di Eli: ma dalla sua biblioteca piena di classici poco può fare arginare un fiume di sangue che pare inarrestabile.

Violenza, sfruttamento – neri, messicani, pellerossa: non si fanno molte distinzioni – legge del più forte e ricorso alle armi. Secondo Meyer sono questi i principi fondanti di una nazione spesso avventatamente presa a modello. Perché il sogno americano è sì avere un’opportunità: che tutti possano detenere e – perché no – usare un’arma.

Vino in abbinamento. Non si beve vino in questo romanzo e, vista la generale approssimazione con cui viene trattato l’argomento da molti scrittori, la cosa non mi spiace affatto. Per controbattere a tutta la violenza che pervade le pagine occorre un vino caldo, rassicurante, quasi materno. Un vino che ci faccia sentire sicuri a casa. Un vino che, nonostante le differenti annate riconosci sempre. Ognuno di noi ne ha almeno uno. E uno dei miei è sicuramente il Vorberg della Cantina di Terlano.

L’importante è finire?

Non sono il tipo che ama i lietofine o le conclusioni ricche di sorprese e colpi di scena. Ma dopo ben 880 (sì, ottocentottanta!) pagine di romanzo, che ti tengono inchiodato alla carta e ti fanno andare a letto tardi, è lecito aspettarsi per lo meno un finale all’altezza di tutto ciò che è stato scritto prima.

Invece il finale di Underworld, romanzo fiume di Don DeLillo, non dico che rovini completamente tutto ciò che si è letto in precedenza, ma sicuramente mi ha lasciato con un po’ amaro in bocca.

Allora perché ce ne parli, potreste giustamente chiedermi?

Innanzitutto perché è un libro scritto benissimo: per tutte le 880 pagine. Spesso mi sono ritrovato a rileggere la stessa frase per più di due volte, per il semplice piacere di assaporare l’incisiva scorrevolezza della scrittura: un po’ come quando ascolti in loop un brano musicale o non ti stanchi di assaggiare e riassaggiare un vino.

L’altro motivo per leggere Underworld è perché rappresenta uno spaccato vero dell’America. Non quella imbellettata e finta di molto cinema, ma quella dura e dolente che si ritrova per esempio nei romanzi di Steinbeck: dove il sogno americano se non è incubo è per lo meno un sonno molto agitato.

In un arco temporale di 50’anni c’è il baseball, che è inizio e pretesto, c’è la guerra fredda e l’incubo nucleare, ci sono Edgar J. Hoover e Frank Sinatra, c’è l’arte contemporanea, c’è la povertà dei quartieri che circondano l’isola felice di Manhattan, c’è il problema dello smaltimento dei rifiuti, ci sono New York e la provincia. Il tutto in un vorticoso flashback che confonde, ammalia, e stupisce.

Il libro è del 1997, ma è decisamente attuale, se non altro per soddisfare il disperato bisogno di una realtà che spesso ci viene camuffata e che ci sfugge.

Vino in abbinamento.

Il bravo sommelier sa che ci sono due regole per l’abbinamento perfetto: la concordanza e la contrapposizione. In questo caso la prima vorrebbe un vino rosso corposo, ricco, opulento; la seconda un bianco fresco, spigoloso, quasi tagliente. Due nomi? Il Merlot Howell Mountain di Beringer e il Riesling Treppchen Kabinett di Dr. Loosen.

Chiacchiere di vino

Qualche giorno fa, parlando dei nuovi modi di raccontare il vino in questo periodo di isolamento forzato (leggi qui), dicevo che anche io mi ci ero cimentato.

Inizialmente l’ho fatto da solo, ma da un mesetto ho anche la controparte: un’amica con la quale abbiamo iniziato a proporre un appuntamento fisso settimanale dedicato a una chiacchierata sul vino. Lei si chiama Sara Santucci e, tra le tante cose che fa, è il volto di Beauty Advisor TV (la trovate qui).

Il nostro appuntamento si chiama Wine Party: abbiamo scelto una formula semplice e leggera, adatta a tutti, esperti e soprattutto neofiti. La scusa è quella di parlare di un vino, invitando i partecipanti a condividere la loro bottiglia, possibilmente della stessa tipologia. Si tratta di un semplice pretesto per socializzare virtualmente, per dare informazioni sul vino che settimanalmente assaggiamo, accompagnate da consigli pratici sul come apprezzare a meglio quello che beviamo, lasciando il giusto spazio alle domande e alle curiosità di chi ci segue.

Perché, nonostante il tanto parlare di vino, lo si fa quasi sempre a livello “alto”, per pochi addetti ai lavori, tralasciando quasi sempre le informazioni basilari. Noi cerchiamo di dare quelle, con professionalità e sorriso sulle labbra.

Se volete unirvi a noi, ci trovate tutti i venerdì alle 19.15 (ma stiamo pensando di spostarci a breve la domenica) sulla mia pagina Facebook (eccola qui). E non dimenticate la bottiglia!

Di acqua, ma non solo

“I miei libri sono la mia biografia. Della serie: le vite dei grandi uomini.”
(Ėduard Limonov)

 

Prendete Gabriele D’Annunzio, toglietegli un bel po’ di talento, fatelo nascere a Dzeržinsk – nella Russia centrale – nel 1943 e otterrete Ėduard Veniaminovič Savenko, in arte Limonov.

Sicuramente più famoso per la biografia scritta nel 1912 da Emmanuel Carrère che per i propri meriti artistici, Limonov è stato un personaggio indubbiamente affascinante; di quel fascino un po’ perverso che esercitano le personalità contraddittorie. Perché Limonov, oltre a essere scrittore (ne parleremo a breve) ha avuto una vita che a dire movimentata è dir poco. Vi lascio il divertimento di scoprirlo da soli, per ora vi basti sapere che il suo pseudonimo significa sì “limone”, ma è anche un richiamo a “limonka”, termine gergale russo che identifica la bomba a mano.

 

Qui ci interessa lo scrittore, che fornisce un’eccellente prova di se nel “Libro dell’acqua”. Scritto nel 2004, è una raccolta di memorie che hanno come filo conduttore appunto l’acqua. Mari, fiumi, laghi, fontane, bagni turchi fanno da scenario alle mirabolanti avventure del nostro (ricordate D’Annunzio?) che si gloria delle sue imprese guerresche e sessuali, da maschio alfa stracarico di testosterone. Ma, superato un iniziale fastidio e dopo essersi resi conto che al nostro piace un po’ esagerare, come lo spaccone che ogni bar che si rispetti può e deve vantare, quello che colpisce il lettore è lo stile della prosa di Limonov. Una prosa secca, diretta, efficace, scevra da ogni fronzolo e dritta all’essenziale. (Ecco, qui il paragone con D’Annunzio non regge più). Limonov tratteggia con poche e preci se parole personaggi e situazioni, senza per questo far perdere fascino alla sua prosa.  Due esempi, scelti tra i tanti: “Poi siamo partiti per Pietroburgo, dove pioveva.” “Ho bevuto vodka per amarla di più e più a lungo.”

E il vino?

Detto che il nostro preferisce la vodka e le uniche concessioni a qualcosa le riserva allo Champagne, è lo stile che mi ha colpito, per la sua sintetica precisione. La stessa precisione senza fronzoli che ormai sto ricercando (leggi qui) e che spererei di trovare al posto di inutili verbosità dannunzinane.