Alla ricerca della felicità

 

Densamente spopolata è la felicità.
(CSI, Bolormaa)

 

Tra i tanti allievi che hanno accompagnato i miei ormai dodici anni di docenza Ais, qualcuno è rimasto impresso più di altri.

Uno di questi spiccava non solo per il suo abbigliamento elegantemente fuori dagli schemi e per la gentilezza nei modi, ma anche per una sorta di inquietudine che traspariva dai sui occhi.

Anche se con lunghe pause, sono sempre rimasto in contatto con Paolo Bonesso durante i suoi numerosi girovagare per il mondo.
Ultimamente, grazie a una comune amica, ho avuto modo di rivederlo e di condividere con lui qualche bottiglia. E ho scoperto che ha al suo attivo ben due romanzi.
Il secondo si intitola Le felicità nascoste e ha come sottotitolo Memorie involontarie di un bevitore di vino.

La sinossi del romanzo è semplice: un uomo giunto al suo centesimo compleanno rievoca, grazie a delle bottiglie di vino, episodi e persone del suo passato.

Ma il libro è decisamente più ricco e denso del mio scarno riassunto.

Innanzitutto è doveroso precisare che non parla di vino, ma che il vino è un semplice pretesto, visto che si sarebbe potuto tranquillamente ricorrere a una canzone, a un film, al colore di un tramonto, alla forma di una foglia.

Il libro è denso e doloroso, con un respiro a tratti profondo e disteso e a tratti veloce e quasi affannoso.
I personaggi che lo popolano – alcuni scavati nel profondo, altri solo abbozzati – riescono comunque tutti vivi e ci troviamo a vivere e soffrire con loro, quasi li avessimo conosciuti anche noi. E Paolo li accompagna con una scrittura sempre precisa, a volte secca e quasi scarna, a volte più ricca e poetica.

Ma soprattutto Paolo racconta se stesso, le sue emozioni, le sue (tante) malinconie, i suoi rimpianti e i suoi istanti felici. E questo suo mettersi a nudo, oltre a essere coraggioso, è impreziosito dalla prosa, emozionata ma sempre controllata.

Il vino, da pretesto narrativo, a fine lettura diventa quasi necessario per cercare consolazione e oblio. E magari per aiutare anche noi a ricordare.

Vino in abbinamento
Che vino abbinare a un libro che ha il vino come filo conduttore? Sicuramente un vino della memoria, un vino che ci porta alla mente il passato o delle consuetudini ancora vive, una sorta di madeleine alcolica. Io non scelgo un vino bensì un vermouth: il Punt e Mes che mia nonna mi offriva immancabilmente – e sempre meno diluito con acqua man mano che crescevo – ogni volta che andavo a trovarla.

Steven Spurrier, il visionario che cambiò la storia del vino

 

Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia.
(Erasmo da Rotterdam)

 

Ci sono pochi uomini che possono vantare di aver cambiato la storia del vino. Uno di questi è sicuramente Steven Spurrier, che ci ha lasciati esattamente un mese fa, lo scorso 9 marzo.

Nato a Cambridge nel 1941, dopo essersi laureato alla London School of Economics e nel 1965 entra nel mondo del vino come apprendista presso il più antico mercante di vino londinese.
Nel 1970 si trasferisce a Parigi, dove rileva una piccola enoteca. La sua Les Caves de la Madeleine è subito innovativa: ai clienti vengono proposti i vini in degustazione prima del loro acquisto.
Nel 1973 fonda L’Academie du Vin, la prima “scuola del vino” privata in Francia.
Nel 1988 torna nel Regno Unito, occupandosi di consulenze e scrivendo di vino, come editor di Decanter e come autore di numerosi testi divulgativi, attività che ha proseguito sino alla sua scomparsa.
Dal 2001 produce anche spumante nel Dorset, con l’etichetta Bride Valley.

Ma la storia di Steven Spurrier è indissolubilmente legata a una data: 24 maggio 1976.
Quel giorno, passato alla storia come Le jugement de Paris, vide sfidarsi in una degustazione alla cieca 6 cabernet e 6 chardonnay californiani contro 4 Bordeaux e 4 Borgogna bianchi. A prevalere furono due vini californiani: il cabernet Stag’s Leap Wine Cellar e lo chardonnay Chateau Montelena.
Ma la vera vincitrice fu la viticoltura californiana, che da quell’evento prese lo slancio per una crescita letteralmente esponenziale e da quel giorno in poi la storia e la geografia del vino non furono più le stesse.

Basterebbe un evento di questa portata per giustificare una carriera: ma tutta la vita professionale di Spurrier è stata segnata da una forza visionaria con pochi uguali.

Se a soli 35 anni, in un mondo come quello del vino con forte tendenza alla gerontocrazia, aveva concepito e realizzato un evento di portata unica ed enorme, anche prima Spurrier non aveva scherzato. Oggi le degustazioni in enoteca oggi la norma, ma non lo erano di sicuro nel 1970, così come negli stessi anni insegnare il vino era ancora attività decisamente elitaria e riservata ai professionisti della ristorazione.

Occorrevano coraggio, visione, determinazione e una buona dose di sfrontatezza per sovvertire il sistema – ricordatevi cosa successe a Parigi e poi in Europa nel 1968 – e Spurrier ha incarnato tutte queste qualità, incarnando la figura del perfetto divulgatore di vino, scendendo dal piedistallo e cercando di portarlo al pubblico, sempre con grande professionalità.

E forse il pacato signore dal guardaroba elegantemente démodé che in questi giorni è comparso in ogni sito che parla di vino, più che un ricco e gaudente borghese deve essere visto come un lucido rivoluzionario.

Celebriamolo dunque, con la speranza che un po’ della sua lucida visionarietà torni a illuminare un mondo che pare stancamente avvolgersi sempre più in se stesso.

Take it easy

Il vino rende più facile la vita di tutti i giorni, meno affrettata, con meno tensioni e più tolleranza.
(Benjamin Franklin)

 

Lo scorso ottobre, ringraziando per il conferimento del riconoscimento come Miglior Viticoltore Italiano 2020, Walter Massa ha dedicato il premio “(…) a tre strutture fantastiche italiane che fanno bere il vino buono. Sto parlando di Ronco, San Crispino e Tavernello che sono più costosi di tanti vini venduti in bottiglie di vetro in tappo di finto sughero. Ringrazio l’1,80 euro che c’è sullo scaffale al supermercato in Italia che fa bere il vino a tutti, contro l’1,70 euro di tanti vini italiani muniti di fascetta, DOCG e DOC. È vergognoso che ci siano bottiglie di vetro a meno di 2 euro l’una.”

Quella di Walter Massa era una lucida provocazione, volta a far riflettere su quello che il mercato offre, soprattutto nei canali della grande distribuzione.

Chi mi segue sa che non è la prima volta (leggi qui) che parlo dei vini in brik, spesso ingiustamente trascurati, per eccesso di snobismo, dagli addetti ai lavori.

Così, per 1 euro e 35 centesimi (approfittando di ben 20 cent di sconto) mi sono procurato l’ultima versione del Tavernello, quella con l’indicazione del millesimo in etichetta.
E l’ho assaggiato.

Prima di parlare del vino occorre spendere due parole sul packaging.
Il brik, rispetto alla bottiglia, presenta un enorme vantaggio in termini di comunicazione. C’è molto più spazio: per scrivere, per raccontare, per informare.
E i signori della Caviro sono stati decisamente bravi a sfruttare l’occasione. Sebbene il lato principale non brilli per originalità e design, le altre tre facce sono un ottimo esempio di comunicazione: chiara, moderna e ben fatta; un preciso racconto della forza e dell’impegno ecologico dell’azienda.

E il vino?
Il vino – annata 2020 – è piacevole e fresco, con le note floreali che prevalgono su quelle fruttate. L’assaggio non presenta nessuna asperità e lo si beve senza pensarci troppo su: un tannino appena accennato, una piacevole freschezza. Lo deglutisci e te lo sei dimenticato, ma non disdegni un altro sorso.

Un prodotto più che dignitoso: perfetto per una grigliata estiva con gli amici, dove l’ultimo dei pensieri deve essere il vino e utilizzare un bicchiere di carta anziché un calice di cristallo non è una bestemmia.
Ma anche abbinato a due fette di salame e a delle chiacchiere piacevoli lo si finisce in un amen: un gregario fedele che porta le borracce e che ti scorta sicuro sino alla fine.

Chiaro che se si cerca un minimo di identità, di espressione di vitigno o territorio, non è il vino che fa al caso nostro.
Ma per poco più di un euro credo che non si possa bere meglio.

Botticino: i vini del marmo

Povera gente! L’Arte non è sbriciolare la propria anima; è di marmo o no, la Venere di Milo?
(Paul Verlaine, Épilogue)

 

Percorrendo l’autostrada A4 in direzione Venezia, poco dopo l’uscita di Brescia alla sinistra del viaggiatore compaiono delle imponenti cave di marmo. Siamo a Botticino, nome che dice poco ai più ma che rappresenta un’autentica eccellenza.

Col marmo di queste cave, tutelato dalla denominazione Botticino Classico, sono stati costruiti non solo molti importanti edifici della vicina Brescia, ma anche l’Altare della Patria a Roma, il Teatro alla Scala a Milano, la Grand Central Terminal e il basamento della Statua della Libertà a New York.

Anche qui, come in tutta la Pianura Padana, nel Mesozoico (tra i 250 e i 65 milioni di anni fa) c’era un mare lagunare. Il processo di sedimentazione e cristallizzazione dei fanghi calcarei presenti sul fondo di questo mare portò, tra i 190 e i 60 milioni di anni or sono, alla formazione di un giacimento di pietra calcarea.
Ma l’unicità del marmo di Botticino è la sua varietà cromatica, dovuta alla presenza di materiale organico e inorganico nella base di carbonato e calcare. (Se vi interessa, il nome scientifico è micrite.)
È invece fondamentale sottolineare che l’estrema compattezza di questo marmo lo rende particolarmente adatto all’utilizzo in esterno, dove coniuga bellezza e resistenza.

Ma Botticino vuol dire anche vino, con una Denominazione d’Origine ben precisa istituita nel 1968.

Barbera, schiava gentile, marzemino e sangiovese sono i vitigni che vengono utilizzati; il Botticino oltre che nel comune omonimo può essere prodotto anche in parte dei comuni di Brescia e Rezzato. L’immissione sul mercato può avvenire dal 1° giugno dell’anno successivo alla vendemmia, mentre per la Riserva occorre attendere due anni.

Il vino con il marmo condivide il territorio e nel marmo affonda letteralmente le sue radici, visto che sotto una cinquantina di centimetri di marne e argille troviamo le prime venature, che conferiscono una precisa impronta alle bottiglie che vengono prodotti nella zona.

L’altra caratteristica del territorio è il microclima, decisamente mediterraneo. La vallata è protetta dalle prealpi bresciane, che evitando l’avvicinarsi dei temporali estivi ma consentono una ventilazione ideale per lo sviluppo aromatico e la sanità delle uve.

In questo contesto opera l’azienda Noventa (qui il link al loro sito), che dagli anni ’70 ha recuperato l’antica tradizione vitivinicola della zona, assecondando i ritmi e le esigenze di natura e territorio.

Ho avuto l’opportunità di assaggiare due vini, che vi racconto brevemente.

L’Aura, di cui ho bevuto il millesimo 2019, è il primo rosato a base schiava gentile prodotto a Botticino, riprendendo la tradizione dei secoli scorsi che sfruttava la generosità dei grappoli molto grossi di questo vitigno.
Dopo essere state diraspate, le uve rimangono a contatto con le bucce per un’ora. Particolare curioso, il vino riposa per tutto l’inverno in contenitori d’acciaio posti all’esterno della cantina, affinché il gelo lo renda naturalmente stabile.
Il rosa è tenue e luminosissimo, il naso vede come attori principali la frutta e la pietrosa mineralità del territorio. Il bicchiere si svuota pericolosamente grazie alla saporita sapidità. Anche dopo un paio di giorni a bottiglia aperta il vino ha mantenuto freschezza e bevibilità, segno che un approccio naturale non va a compromettere la stabilità del prodotto.

Il Pià de la Tesa 2017 è invece un classico uvaggio di barbera, sangiovese, marzemino e schiava gentile (35, 35, 20 e 10, se vi interessano le percentuali precise). La vigna è esposta a sudest, riceve i raggi del sole tutto il giorno ed è circondata dalle cave di marmo. I grappoli sono selezionati, diraspati, e fermentati a temperatura controllata per 10 giorni con follature e rimontaggi delicati. La fermentazione malolattica avviene in vecchie botti di rovere da 10 hl, in cui il vino affina poi per circa 18 mesi; ancora 6 mesi di bottiglia e poi è pronto per essere messo in commercio.
Elegante e preciso sono i due aggettivi che meglio lo definiscono. Al naso sfilano prima la frutta, ancora ricca e vivace, poi spezie e una nota minerale di grande personalità. Vino perfettamente equilibrato, confortante e dal bel finale sapido. Anche in questo caso ho riassaggiato la bottiglia dopo un paio di giorni, ritrovandovi intatta l’esuberanza fruttata e accresciuta la complessità.

Una bella scoperta, insomma. Che dimostra che possono esistere territori vocati e tipici anche fuori dalle zone più note e blasonate. Territori che hanno solo bisogno di lavoro e passione per esprimere le loro potenzialità.

Quando i numeri non contano

“Carneade! Chi era costui?”
A qualcuno sarà tornata in mente la frase di Don Abbondio che apre l’ottavo capitolo dei Promessi Sposi, lo scorso 27 febbraio, quando l’Istituto dei Masters of Wine ha annunciato il nome del primo italiano a potersi fregiare del titolo: Gabriele Gorelli.

(Apro una breve parentesi per dire a chi non lo sapesse cos’è The Institute of Masters of Wine. È la più autorevole organizzazione che si occupa di vino, nata nel Regno Unito più di settant’anni fa – il primo esame fu nel 1953 – e che da allora ha riconosciuto solo 493 membri; a riprova della difficile selezione che occorre superare per entrare a farne parte.)

Ma Gabriele Gorelli, che ora può fregiarsi delle due lettere MW dopo il proprio cognome, è tutt’altro che un carneade.

Classe 1984, originario di Montalcino – per una volta un profeta in patria –, da sempre si occupa di vino: non solo gestendo la più piccola cantina ilcinese, ma occupandosi, con due diversa società da lui fondate, della comunicazione visiva del vino, vendita e marketing. Parla correntemente inglese e francese, se la cava col tedesco e pratica yoga (che nulla ha a che fare col vino, ma di sicuro aiuta a mantenere la concentrazione e a stemperare le tensioni).

Semplicemente Gorelli non è nome noto ai più perché si è tenuto nascosto dal mondo social, impegnandosi a lavorare e a studiare per conquistare il suo titolo. Basti pensare che la sera del giorno della proclamazione ufficiale da parte dell’IMW i suoi follower su Instagram erano 1.499; mentre ora che scrivo, dopo 2 giorni, hanno raggiunto quota 2.400.

Insomma, oltre all’orgoglio di avere un connazionale finalmente ammesso al club dei Master of Wine, abbiamo la speranza che (forse) i titoli e i meriti acquisiti sul campo contino di più che un manipolo di seguaci virtuali.

Non scrivo più

Le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste.
(Raymond Carver)

 

Qualche giorno fa Andrea Matteini pubblicava un post (leggi qui) in cui, con grande onestà intellettuale condita da un pizzico di ironia, dichiarava che non avrebbe più scritto di vino e si sarebbe limitato a venderlo.

Chapeau ad Andrea, dunque, e grazie per lo spunto sicuramente stimolante: se qualche settimana fa mi e vi chiedevo “di cosa parliamo quando parliamo di vino” (leggi qui) ora sono a domandarmi “perché scrivo di vino”?

La prima riposta è che ne scrivo come naturale conseguenza del fatto che principalmente ne parlo. L’espressione orale e quella scritta sono sorelle ed entrambe soggette a regole ben precise. Ma se la parlata può permettersi qualche licenza e a volte anche qualche imprecisione, la scrittura deve essere sempre attenta, rigorosa e precisa.

Parlando di vino sono spesso costretto a seguire la struttura piuttosto rigida dettata dalla didattica; la scrittura rappresenta invece una sorta di sfogo, di libertà, seppur anch’essa costretta in uno schema. Schema che per me è diventato piuttosto rigido, visto che da qualche tempo utilizzo spesso l’haiku (leggi qui) come mezzo per raccontare il vino.

Andrea nel suo pezzo, poi, afferma che chi scrive deve avere dei lettori.

Giusto, giustissimo.
Ma i lettori vanno anche cercati e conquistati, altrimenti verrebbe a mancare una spinta fondamentale alla scrittura. E, in una società dove la parola scritta sta perdendo sempre più terreno rispetto all’immagine, dove il pubblico ha sempre più fretta e si annoia dopo poche righe, soprattutto se queste appaiono sullo schermo di uno smartphone o sul video di un pc, tornare a un mezzo d’espressione che ormai pare antico e desueto diventa anche una sorta di lotta alla sopravvivenza.

Quindi scrittura anche come forma di resistenza: tentativo di raccontare, emozionare, soprattutto comunicare in modo chiaro, elegante, perché no appassionante. Cercando di ricordare che il protagonista non è schi scrive, ma ciò di cui si scrive: rispettandolo così come va rispettato il lettore.

Sperando che gli archeologi del futuro possano ancora imbattersi in pagine – cartacee o elettroniche – di bella scrittura e non solo in immagini o emoticons.

Concludo con una famosa pagina dei diari di Beppe Fenoglio. Uno che “faceva il mestiere” ma che sentiva il bisogno giustificarsene.

«Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convinzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma.
Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera.
La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.
Scrivo whit a deep distrust and a deeper faith.»

Tondelliana

Ci sono libri che devono essere letti in un preciso periodo della propria vita: né troppo presto né, soprattutto, troppo tardi.

Io ho letto da poco, e troppo tardi, Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli.

Uscito nel 1980 destando non poco scalpore, il libro fu oggetto di un sequestro quando era giunto alla terza ristampa e di un successivo processo per oscenità, che vide però l’assoluzione dell’autore. (Una curiosità, se l’edizione Feltrinelli è quella originale, Bompiani ne ha pubblicata una edulcorata.)

Un libro che per gli argomenti trattati – droga, sesso, omosessualità – e soprattutto per un linguaggio sicuramente innovativo, volutamente crudo e solo apparentemente sciatto, ha rappresentato un punto di rottura, seguito da discepoli ed epigoni.

Il mio problema è che ho letto Altri libertini a cinquant’anni suonati e a quarant’anni dalla sua pubblicazione: siamo entrambi troppo vecchi perché io possa trovare nel romanzo di Tondelli quella provocante freschezza che sicuramente aveva e che magari ancora può avere agli occhi di un ventenne.

Non volevo però fermarmi a un solo libro tondelliano, così ho letto anche Rimini, romanzo uscito nel 1985.
Qui sembra di trovarsi di fronte a un altro scrittore, molto più attento alla tecnica e sicuramente più classico nella narrazione. Narrazione che anticipa certi malvezzi della politica emersi poi qualche anno dopo – ricordate Mani Pulite? – ma che a lettura terminata mi ha lasciato un senso di incompiutezza e di occasione mancata.

Riconosco ad Altri libertini il merito di aver affrontato argomenti scomodi e di averlo fatto con un linguaggio nuovo e provocatorio. Rimini invece mi è parso un bell’esercizio di stile, forse anche un modo per affrancarsi da una scrittura “sporca”, ma sicuramente non indimenticabile.

Vino in abbinamento.
Ci sono vini che se avessi bevuto solo quindici anni fa avrei trovato buonissimi, quasi irresistibili. Vini che avrebbero colpito il mio palato da giovane e inesperto sommelier con la loro esuberante opulenza. Uno di questi sarebbe stato sicuramente Il Bruciato della Tenuta Guado al Tasso. Un classico taglio bolgherese di cabernet sauvignon, merlot e syrah. Un vino ottimo, tecnicamente ineccepibile anche considerando che ne vengono prodotte quasi 900mila bottiglie all’anno. Ma un vino che oggi non riuscirei proprio a bere.

 

Bottiglie nel tempo

Il solo modo di trovare una cosa è non cercarla. Occorre che quella cosa cerchi voi e vi trovi. Dunque il poeta è essenzialmente passivo, riceve, ringrazia, poi fa del suo meglio per ridurre tutto questo in parole.
(Jorge Luis Borges)

 

Sarà che sto invecchiando e sto diventando più saggio.
Oppure sarà che non riesco a tenere più certi ritmi di bevute.
Fatto sta che non riesco più ad affrontare batterie sterminate di vini; preferisco poche bottiglie, e soprattutto cerco di capire come cambiano ed evolvono dopo qualche giorno.

Non è solo un esercizio lezioso e fine a se stesso, ma permette di capire se un vino può sfidare ossigeno e tempo; e può riservare aspetti inaspettati.
Un piccolo lusso che tutti dovrebbero concedersi.

Non finire la bottiglia quindi; ma conservare un po’ di vino, tappare, mettere in frigorifero (anche se è un rosso non si offenderà) e dopo un paio di giorni vedere cosa è successo.
E, molto spesso, avere delle belle sorprese.
Perché molti vini non solo si conservano perfettamente, ma addirittura migliorano: regalando profumi e sensazioni che all’inizio non erano stati capaci – o non avevano voluto? – di concedere.

Mi è successo recentemente con una bottiglia rara e preziosa come il Clos La Néore 2013 di Edmond Vatan: in due giorni è passato dall’essere opulentemente smaccato al divenire un capolavoro di sottile e tagliente raffinatezza.
Ma accade spesso, sia con vini importanti e magari con un po’ di anni in cantina sulle spalle, sia con vini più semplici. Anche con gli spumanti.

Ormai siamo abituati a volere, e spesso ottenere, tutto subito; a cercare il risultato ad ogni costo; a non lasciare il tempo alle cose.
Al vino questo non piace.

Ci vogliono mesi affinché l’uva maturi e lo faccia bene; altri mesi perché l’acino diventi misto e poi vino; mesi se non anni perché il vino possa andare in bottiglia; anni di riposo in cantina.

Il vino, che è cosa viva, dopo essere stato svegliato piuttosto rudemente non può e non vuole esprimere il massimo delle sue potenzialità. Deve ambientarsi, capire dove si trova, passare dal vetro della bottiglia al cristallo del calice, stiracchiarsi un po’, respirare a pieni polmoni.
Poi, e solo poi, inizia a entrare in forma, a esprimere quelli che sono il suo vero potenziale e la sua vera natura. A regalare a chi ha saputo aspettarlo soddisfazioni ed emozioni.

Pensateci, la prossima volta che aprite una bottiglia.

Cristal? Biodinamico!

Ciò che qui bisogna comprendere è che il vivente non è che una somma di frequenze o di ritmi, è un mondo vibratorio.
(Nicolas Joly)

 

È stata da poco presentata la nuova annata di Cristal, la 2012.

Cristal è uno Champagne che non ha bisogno di presentazioni: prodotto a partire dal 1876 dalla maison Roederer, è una delle etichette iconiche non solo della denominazione ma del mondo del vino in assoluto, da sempre simbolo di lusso ed eleganza.

La 2012 – riporto dal sito dell’azienda – è stata un’annata difficile ma ottima, caratterizzata da basse rese e un ottimo livello di maturazione.

Ma non è questa l’informazione importante. Il millesimo 2012 passerà alla storia perché è il primo in cui la maison ha operato in regime biodinamico, segnando una vera e propria rivoluzione.

Il progetto è partito parecchi anni or sono, visto che la conversione in biodinamica richiede tempi lunghi, non fosse altro per il fatto che – la faccio breve, ripromettendomi di tornare sull’argomento in un prossimo post – occorre ripulire il terreno dalle sostanze nocive accumulate durante gli anni.

In Champagne, soprattutto per un’azienda di grosse dimensioni, questo percorso è reso ancora più difficile dal fatto che le uve provengono da tante vigne differenti, mettendo il produttore di fronte a una frammentazione difficile da gestire.

E anche se la maison non usa la parola “biodinamica”, preferendo parlare di “una nuova viticoltura che unisce l’Uomo e la Natura” si tratta di un evento epocale: un modo di concepire e fare vino quasi sempre caratterizzante un piccolo produttore artigianale, che invade un mondo dove regnano (o bisognerebbe dire regnavano?) business e tecnologia. Oltretutto in una regione come la Champagne, spesso e volentieri associata a una viticoltura di stampo prettamente industriale e dominata da aziende di grosse dimensioni.

Gli spunti, come capite, sono innumerevoli.

Mi soffermo però su un fatto: essendo il Cristal 2012 un vino realizzato in biodinamica, entra di diritto in quella grande – e indefinita – categoria dei vini “naturali”.

Vini che spesso e volentieri fanno storcere il naso a tanti professori, veri o presunti, che non perdono occasione per deriderli e sottolinearne i presunti difetti.

Aspetto quindi al varco qualcuno che affermi che il Cristal puzza…

p.s.: nessuna bottiglia di Cristal è stata (purtroppo) aperta per scrivere questo post.

Prosecco rosé

Premessa

Ormai da anni il Prosecco è diventato un fenomeno.
È di questi giorni la notizia che la produzione 2020 ha superato i 500 milioni di bottiglie. Più di mezzo miliardo: detto così fa sicuramente più effetto.

Ma la vera novità dell’anno appena trascorso è il debutto della versione rosata: dal 31 luglio scorso è stata infatti ammessa anche la denominazione Prosecco Rosé, annunciata anche da una campagna pubblicitaria che proprio in questi giorni coinvolge stampe e televisione.

Sebbene se ne parli – e se ne beva – molto, mi sono accorto che c’è grande confusione su questo vino: non solo tra i semplici consumatori, ma anche tra gli addetti ai lavori. Provo quindi a fare un po’ di chiarezza.
(Se sapete tutto sul Prosecco saltate i prossimi paragrafi e andate subito alle conclusioni.)

I dettagli

Innanzitutto esistono due denominazioni, una DOCG e una DOC.
Perché? Perché, per tutelare il nome Prosecco e per difenderlo dai tentativi di imitazione che il successo ha inevitabilmente scatenato, si è deciso di estendere l’area di produzione dalle originarie colline di Valdobbiadene (in provincia di Treviso) a tutto il Friuli-Venezia Giulia, visto che proprio vicino a Trieste esiste un piccolo paesino che si chiama Prosecco.

Abbiamo quindi due disciplinari, che presentano differenze sostanziali.

Il primo è quello relativo alla DOCG Conegliano-Valdobbiadene Prosecco.
Sono identificate 3 denominazioni: Conegliano Valdobbiadene Prosecco, Conegliano Valdobbiadene Prosecco frizzante, Conegliano Valdobbiadene Prosecco spumante. Alle versioni “spumante” possono essere aggiunte le menzioni “sui lieviti”, “superiore”, Rive” e “superiore di Cartizze”.
L’area di produzione è ristretta ed è limitata a soli 15 comuni.
I vitigni ammessi sono la glera, che deve essere utilizzata per almeno l’85%, a cui può essere aggiunto un 15% di verdiso, bianchetta trevigiana, perera e glera lunga. Solo se presenti storicamente nei vigneti sono ammessi pinot bianco, chardonnay, pinot grigio e pinot nero (gli ultimi due vinificati in bianco).
Le rese, cioè la quantità di uva che si può produrre, per ettaro sono fissate in 13,50 tonnellate per il Conegliano-Valdobbiadene Prosecco. Scendono a 13 e 12 tonnellate per ettaro rispettivamente per la menzione “Rive” e per quella “Superiore di Cartizze”.

Il secondo disciplinare riguarda la DOC Prosecco, e prevede 4 denominazioni: Prosecco, Prosecco spumante, Prosecco spumante rosé e Prosecco frizzante.
L’area di produzione è decisamente estesa, e comprende le province di Belluno, Padova, Treviso, Venezia e Vicenza in Veneto (mancano solo Rovigo e Verona) e quelle di Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine in Friuli-Venezia Giulia (che sarebbe come dire tutto il territorio regionale!)
Anche per quanto riguarda i vitigni ammessi le maglie sono decisamente più larghe. Oltre al solito minimo dell’85% di glera, sono ammessi verdiso, bianchetta trevigiana, perera, glera lunga, chardonnay, pinot bianco, pinot grigio, pinot nero. Per la versione “rosé” la percentuale di glera può variare tra l’85% e il 90%, mentre la restante parte deve essere utilizzato il pinot nero, questa volta però vinificato in rosso.
Le rese per ettaro sono fissate a 18 tonnellate/ettaro per la glera, 13,5 tonnellate per il pinot nero.

E mi fermo qui, lasciando ai lettori più volenterosi la lettura dei disciplinari completi.

Conclusioni

Quindi sotto lo stesso nome convivono due denominazioni ben distinte.
Ed è proprio questo il problema.
Perché il consumatore medio – e non solo lui – non ha gli strumenti per distinguere tra le due.
(Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, il consumatore medio chiama Prosecco qualsiasi vino con le bollicine, sia esso Champagne o Franciacorta o quello-che-volete-voi.)

Capite bene che i due Prosecco presentano profonde differenze: storiche, territoriali, metodologiche.

Se guardiamo alla DOCG, siamo di fronte a un prodotto legato non solo a un territorio ben definito e con particolarità uniche, come ad esempio colline dalle forti pendenze, ma anche alle sue tradizioni, a un “saper fare” radicato da secoli, a una tradizione che ha saputo sfruttare le caratteristiche di vitigno e territorio.

La DOC è invece frutto di un’invenzione, un escamotage per salvaguardare la denominazione: soluzione che a mio parere è stata però peggiore del presunto male a cui voleva mettere rimedio, anche se i numeri sono tutti a favore di questa linea.

E la nuova versione rosé non fa che confermare il distacco da tradizione e territorio. Viene utilizzato un vitigno – il pinot nero – che sebbene presente in zona non si può certo considerare tradizionale; così come non è tradizione vinificarlo in rosso per poi aggiungerlo alla glera.

Insomma, è stato inventato un prodotto nuovo che sicuramente va incontro al mercato e che molto probabilmente accrescerà il successo del Prosecco.

Ma di quale Prosecco?