Sake made in Piemonte

 

La terra nera
Anche dietro i sandali
I fiori di pruno
Kobayashi Issa

 

Ho già parlato qui del mio rapporto con sake e del suo successo nel nostro paese.

La coltivazione del riso (che del sake è l’ingrediente principale) è molto diffusa in alcune regioni del nord Italia, e alcuni produttori hanno pensato bene di cavalcare l’onda di questo successo per provare a produrre del sake italiano.

(Apro una piccola parentesi. In Giappone per il sake non si utilizza il riso che comunemente si mangia; si usano invece alcune particolari varietà che, seppur edibili, presentano caratteristiche ottimali per essere lavorate, prima tra tutte una maggior dimensione del chicco.)

Ho recentemente avuto modo di assaggiare Nero, un fermentato a base di riso che si ispira al fermentato giapponese, interpretandolo però in chiave italiana. O, per essere ancora più precisi, piemontese.

La prima differenza con sake giapponese è il riso utilizzato: in questo caso si tratta della varietà Penelope, dai chicchi neri e aromatici, prodotto dall’azienda Gli Aironi.
Anche i lieviti utilizzati parlano italiano: una selezione di saccaromices utilizzati originariamente per la produzione della birra.
Ma il processo di lavorazione che caratterizza maggiormente Nero è l’aggiunta finale di alcol. Questa operazione viene utilizzata anche per la produzione del sake giapponese, ma nel caso di Nero si utilizzano anche alcune delle erbe solitamente adoperate per la produzione del vermouth.

Il risultato?
Un prodotto che si avvicina molto di più al vermouth che al sake, conservandone però la finezza e la delicata aromaticità.

L’ho provato liscio come aperitivo, con ghiaccio e una scorza di limone: fresco, appagante e dissetante.
Ma il meglio di sé credo l’ha dato in miscelazione: il Negroni che ho preparato utilizzandolo al posto del vermouth era non solo interessante, ma decisamente buono. Infatti proprio in miscelazione emergono le caratteristiche di eleganza e finezza del prodotto, che conferiscono un carattere di spiccata eleganza al risultato finale.

Anche il packaging – elegante nella sua semplicità – evoca sicuramente di più un vermouth o un prodotto destinato alla miscelazione che un sake giapponese, mettendone giustamente in risalto il colore.

In conclusione: un’ottima operazione commerciale che però si regge su sostanza e professionalità e che ben valorizza un prodotto tipicamente italiano come il riso.

Haiku quota 200

 

Sessanta lune:
i petali di un haiku
nella tua bocca.
Edoardo Sanguineti

 

Il 4 maggio 2020 pubblicavo il mio primo haiku.
Ieri, 14 giugno 2021, sono arrivato a 200. (Sì, li ho contati tutti!)

Non so quanti ne abbiano scritti, in vita loro, i maestri Bashō o Issa: ma scriverne 200 per me ha rappresentato una sfida e soprattutto una discreta fatica.

In questi giorni sono andato a rileggerli.
Alcuni, soprattutto i primi, li ho trovati ingenui; altri ripetitivi (Excel in questi casi è impietoso). Alcuni invece mi sono piaciuti molto.

In fondo 200 è un numero come tanti, solo un po’ più tondo.
Per ha rappresentato un’occasione per fermarmi a pensare, dopo poco più di un anno di scrittura. Piacciono? sono capiti? sono troppo cerebrali? rischiano di apparire troppo semplici? continuo a scriverli? smetto?

Tante domande, e devo dire poche risposte.

La tentazione di smettere c’è stata, e forse c’è ancora.

Sicuramente ci sarà un rallentamento, dovuto a impegni degustativi che per più di un mese mi impediranno di raccontare sul social quasi tutto quello che andrò ad assaggiare.

Sarà anche un’occasione di profonda riflessione, anche se credo molto in questa forma di racconto del vino, come scrivevo qui.

Ma sarà anche un’occasione per leggere i commenti, le proposte e i suggerimenti che spero avrete la bontà di farmi.

Il linguaggio del linguaggio

 

«Chi conosce in profondità si sforza d’esser chiaro; chi vorrebbe sembrare profondo alla moltitudine si sforza di essere oscuro.»
Friedrich Nietzsche

 

Ero decisamente impaziente di leggere Il linguaggio del vino di Francesco Annibali.
Talmente impaziente da averlo ordinato praticamente en primeur, aspettando che uscisse dalle rotative.
Un paio di commenti più che positivi, fatti da persone che stimo molto, mi avevano convinto all’acquisto, praticamente a scatola chiusa.
L’altro motivo che mi aveva spinto all’acquisto, sicuramente meno istintivo e più ragionato, era il fatto che il libro prometteva nuova luce e nuovi orizzonti nel modo di comunicare il vino. E per me, che del raccontare il vino ho fatto un mestiere, ogni nuova occasione di aggiornamento e novità è fondamentale.

Iniziamo dalla forma, che non sempre litiga con la sostanza.
Il testo del libro non è giustificato: cosa che se posso ammettere in una poesia futurista (come lo Zang Tumb Tumb di Marinetti) ma che credo sia inammissibile in un saggio. La lettura, già non agevole per la complessità del contenuto e per una scrittura spesso non troppo lineare, è resa ancora più difficoltosa dal disordine delle pagine.

Superato – meglio, accettato di cattivo grado – lo scoglio grafico, arriviamo alla sostanza. Che è stata inferiore alle aspettative: se andiamo a togliere la farcitura dei rimandi a semiologi e filosofi ed eliminiamo le ripetizioni, i concetti, seppur validi e validamente argomentati, rimangono pochi.

Se le prime due parti del volume – che affrontano il linguaggio della degustazione e il contesto in cui si colloca il vino – offrono alcuni spunti interessanti, la terza mi ha dato l’impressione di un riempitivo in cui l’autore dice la sua su alcuni temi, primo fra tutti il vino “naturale”. E, seppur condivida alcune delle opinioni espresse, le trovo francamente fuori tema.

 

Acquisto sbagliato?
Sono sincero: a caldo avrei detto di sì.
Ma ho lasciato apposta decantare lettura e impressioni prima di scriverne, e sono andato a rileggere alcuni passaggi.
Il mio umilissimo parare e che si tratta in ogni caso di un’opera coraggiosa: che avrebbe bisogno di maggior semplicità, un pizzico di autoreferenzialità in meno e una diversa organizzazione del contenuto.
E, per favore, con il testo giustificato!

Vino in abbinamento
Ci sono annate che regalano vini che sanno unire alla complessità un’estrema facilità di beva. Una di queste è stata la 2018, e il vino che berrei a lunghe e appaganti sorsate, a dispetto della sua eleganza e della sua struttura, è il Barbaresco Roncaglie di Poderi Colla.

Nebbiolo a confronto

 

Le risposte non vengono ogniqualvolta sono necessarie, come del resto succede spesse volte che il rimanere semplicemente ad aspettarle sia l’unica risposta possibile.
José Saramago, Cecità

 

Le degustazioni alla cieca rappresentano sempre una sfida: e come tutte le sfide sono contemporaneamente affascinanti e crudeli.
È vero, espongono al rischio di figuracce colossali, ma hanno l’enorme vantaggio di sgombrare la mente delle troppe sovrastrutture cha a volte il vino si porta dietro, lasciando spazio e tranquillità per tuffarsi nel profondo del calice per cercare di coglierne tutti gli aspetti, anche quelli più reconditi.
E, particolare non trascurabile, spesso regalano belle sorprese.

È quello che è successo recentemente, quando un amico ha proposto il Langhe Nebbiolo del millesimo 2016 nell’interpretazione di tre produttori: due nomi storici come Bartolo Mascarello e Giuseppe Rinaldi e l’emergente Cascina Fontana.

Evito descrizioni lunghe (e noiose), così come evito di soffermarmi sull’ormai celebratissima 2016. Mi limito a poche considerazioni.

La bottiglia di Mascarello – secondo me quella con l’etichetta più bella tra le tre, ma questo sarebbe un altro discorso – non era in forma, probabilmente a causa di una non perfetta tenuta del tappo. Già il colore, non brillantissimo, lasciva intuire il velo di stanchezza che appannava ma non nascondeva del tutto una grande materia e una delicata finezza. Peccato.

Il vino di Rinaldi ha rivelato una composta struttura: elegante e di grande persistenza. Appagante e già buonissimo, ma con una prospettiva di evoluzione importante. Un’interpretazione del nebbiolo e dell’annata rigorosa, al limite dell’austerità: coerente con il credo e soprattutto la personalità del produttore.

Ma la vera sorpresa è stato il vino di Cascina Fontana, sicuramente il più fresco e integro del terzetto, con una facilità di beva sorprendente, nonostante struttura e complessità. Anche in questo caso una bottiglia da dimenticare in cantina senza timore.

Per concludere ci sarebbe da parlare del prezzo delle singole bottiglie. Ma, sia perché sono state offerte, sia perché è volgare parlare di soldi, ne parlerò in un’altra occasione. Forse.

Cicatrici

 

«Credo che la maturità non porti nessuna esperienza» disse. «O dovrei dire che l’esperienza non porta nessuna maturita?»
Juan Josè Saer, Cicatrici

 

Tutti noi abbiamo delle cicatrici.
E non parlo del ricordo della brutta sbucciatura che ci siamo fatti da bambini o dei punti di sutura di un’operazione chirurgica. Parlo delle cicatrici che segnano la nostra vita e la nostra mente.

Ricordiamo tutti almeno un episodio negativo nel nostro vissuto, le cui conseguenze più o meno sovente tornano a farsi sentire, oppure sono subdolamente latenti ma pronte ad aggredirci quando meno le attendiamo.

Ed è proprio di questo che parla Cicatrici, romanzo dello scrittore argentino Juan Josè Saer.

(Autore pochissimo conosciuto in Italia, dove le sue opere sono state tradotte e pubblicate da poco, Saer nacque in Argentina nel 1937 da immigrati siriani; nel 1968 si trasferì in Francia, dove affiancò all’attività di professore universitario quella di scrittore. Morì a Parigi nel 2005, lasciando una dozzina di romanzi, nove raccolte di racconti, una raccolta di poesie e alcuni saggi.)

Cicatrici è un libro preciso e doloroso, quasi chirurgico nell’esplorare e mettere a nudo le debolezze umane. Quattro lunghi capitoli, solo apparentemente staccati l’uno dall’altro, che affrontano vizi, debolezze e tormenti di quattro personaggi, le cui cicatrici sono vive e pulsanti.

E a renderle ancor più vive e pulsanti è la scrittura di Saer, che pur figlia dei grandi maestri argentini – sicuramente Borges, ma anche Roberto Artl e Juan Carlos Onetti – si rivela personale e di grande raffinatezza, con una grande padronanza tecnica che non è mai semplice compiacimento ma umile strumento al servizio della narrazione.

Si termina la lettura con i nervi scoperti, con le nostre personali cicatrici che fanno male; più consapevoli della loro presenza ma anche più forti nel sopportarle.

Vino in abbinamento
Sono banale, ma il vino è sempre legato a momenti e ricordi leggeri, felici, spensierati: è molto difficile che una bottiglia riporti a galla dolore o malinconia. Ma, pensandoci bene, può anche capitare. A me è successo, con un grande Barbaresco: il Gallina 2010 di Piero Busso.

Io e il sake

 

Il tetto si è bruciato:
ora
posso vedere la luna.
Mizuta Masahide

 

Nell’estate del 2018 rimasi colpito da un breve filmato dove, in poco più di due minuti, veniva spiegato cosa è il sake. Ne fui colpito non solo perché l’argomento mi interessava, ma soprattutto per la chiarezza e la brillantezza di chi parlava.
Fatto sta che appena terminata la visione interrogai subito Google e scoprii che in Italia si organizzava un corso per diventare Sake Sommelier, il cui docente era lo stesso protagonista del filmato, Lorenzo Ferraboschi.

Ecco come è iniziato il mio percorso nel modo del fermentato di riso giapponese.
Il corso ovviamente l’ho fatto, ho sostenuto e passato l’esame e da ormai più di due anni sono Sake Sommelier Certificato SSA (Sake Sommelier Association).

Arrivando dal mondo del vino avevo due alternative per approcciarmi al sake: fare continui paragoni oppure cancellare – temporaneamente – tutto quello che ho imparato e insegno.
Ho optato per la seconda strada, e sono sempre più convinto di aver fatto la scelta corretta.
Perché se e vero che ci sono alcuni punti di contatto tra sake e vino, le differenze sono tante, così come estremamente diversa è la degustazione, che mette in discussione i parametri a cui ero abituato.

Senza dimenticare la diversa cultura che ha dato origine al sake: cultura che con le sue tradizioni e con il suo approccio alla produzione rispecchia perfettamente il Giappone.

Sono così entrato in un mondo vasto, variegato e complicato, ma proprio per questo affascinante.
Perché non esiste un sake, ma esistono tantissime tipologie di sake (e qui il paragone col vino ci sta tutto) tra cui a volte districarsi non è facile.
E proprio per il suo essere così sfaccettato, il sake ha grandi potenzialità, soprattutto nell’abbinamento a tavola. E non solo con la cucina giapponese; anzi, osando un po’ diventa il perfetto compagno anche delle preparazioni italiane più tradizionali.
Ma attenzione: non si tratta di un avversario vino, bensì di una sorta di fratello o di amico, in grado di sostituirlo senza però mai metterlo da parte.

Questo è anche quello che ho cercato di trasmettere nelle (purtroppo poche) serate di divulgazione che tra un confinamento e l’altro sono riuscito a organizzare.
E ho sempre trovato un pubblico non solo attento e curioso, ma anche entusiasta e conscio che il sake non è solo una moda ma qualcosa di molto più solido e concreto.

Di acqua e di vino

 

Quelli che scrivono con chiarezza hanno dei lettori, quelli che scrivono in modo ambiguo hanno dei commentatori.
Albert Camus

 

Oltre che di Fedez, in questi giorni si è parlato molto del fatto che la Comunità Europea concedesse la possibilità di aggiungere acqua al vino. E come sempre accade – per lo meno quando si parla di vino, non so se lo stesso valga per Fedez – in giro c’è tanta, troppa, confusione. Anche perché ad occuparsi della notizia sono spesso giornalisti non specializzati.

Cosa è successo?
È successo che in sede di commissione europea si sta studiando l’opportunità di permettere ai produttori di dealcolizzare il vino: sia per ridurre i volumi alcolici sempre più alti che le temperature elevate comportano, sia per offrire al consumatore un prodotto più “light”.

Non entro nel merito della questione: questa non è la sede e non ne ho le competenze. Vi invito però a leggere il commento di Michele Serra su “L’amaca” dell’8 maggio scorso (lo trovate su questa pagina Facebook ).

La cosa che mi preme sottolineare è che nessuno, né in sede europea né in Italia, ha mai parlato di allungare il vino con l’acqua.
Ma, misteri del giornalismo non specializzato e ricerca del sensazionalismo, l’orrore del vino annacquato ha invaso il mondo del vino, suscitando reazioni più o meno sdegnate, dibattiti e anche gli inevitabili meme.
Tanto rumore per nulla, direbbe il Poeta: da Bruxelles e dal Ministero delle Politiche Agricole sono subito arrivate le smentite (ovviamente riportate con molto meno clamore della prima notizia) e soprattutto la precisazione che nessuno ha mai parlato di aggiungere acqua al vino.

Spero vivamente – pia illusione, la mia – che gli estensori di questi articoli finalmente si documentino: verranno tra l’altro a conoscenza del fatto che già adesso il vino è composto per almeno l’85% di acqua.

L’apparenza non inganna

 

L’eleganza è quella qualità del comportamento che trasforma la massima qualità dell’essere in apparire.
Jean-Paul Sartre

 

Il Roero è una terra a cui sono particolarmente legato; per ragioni di sangue, visto che i miei nonni materni erano originari di questa zona.
E, proprio per ragioni di appartenenza, ho avuto modo di viverlo, soprattutto in gioventù, quando almeno un mese delle vacanze scolastiche passava tra le rocche, i castagneti e le (allora poche) vigne.

Perché la vite, presente da sempre in quest’area, non è mai stata monocultura come in altre zone, condividendo spazi e paesaggi con frutteti e boschi.

Il Roero si trova sulla sinistra idrografica del fiume Tanaro (che lo separa dalle Langhe) e la pianura di Carmagnola, in un territorio dal suolo prevalentemente sabbioso: qui sino a 2 milioni di anni fa c’era il mare, e i fossili che ancora adesso si trovano nelle vigne ne sono dimostrazione lampante. Ma tutta la zona presenta una complessità geologica molto maggiore, passando dal gesso all’argilla per arrivare alle marne.

Se a questo aggiungiamo un clima unico, caratterizzato dalla quasi totale assenza di riserve idriche, dalla poca piovosità e da forti escursioni termiche, si capisce bene che ci trova di fronte a un territorio dalle caratteristiche praticamente irripetibili.

Così come è quasi unica la presenza di due vitigni, uno a bacca bianca e uno a bacca nera, che sanno esprimere entrambi vini di elegante personalità: arneis e nebbiolo.

Ottenuta la DOC nel 1985 e la DOCG nel 2005, l’ultima rivoluzione normativa roerina è datata 2017: oltre a essere state introdotte 135 Menzioni Geografiche (terza zona in Italia dopo Barbaresco e Barolo) è stata data la possibilità di non menzionare la parola Arneis per indicare il Roero bianco – scelta molto coraggiosa – e, sempre per la versione in bianco, l’introduzione della menzione “Riserva”, atta a raccontare e valorizzare il potenziale evolutivo dell’uva arneis.

Per comunicare tutto questo il Consorzio di Tutela del Roero ha deciso di creare quattro etichette che andranno a vestire le bottiglie istituzionali: il Roero bianco, il Roero e le due versioni Riserva.

 

Presentate a inizio 2021, sono state rilanciate lo scorso 22 aprile durante un webinar dal titolo “Roero DOCG: arte, territorio e cultura”.

Opera dell’artista Feny Parasole, originaria di Bra e nota a livello internazionale, e realizzate dallo studio torinese Labelcinque, le quattro etichette richiamano sia la vite, con il tralcio stilizzato delle versioni Riserva, ma soprattutto il territorio: c’è il bianco del terreno, l’azzurro dell’antico mare, il giallo e il rosso dei vini.

Ma oltre che evocative le etichette a parer mio sono molto belle, eleganti e leggiadre: come molti dei vini prodotti nella zona.

E se il loro scopo è quello di attirare l’attenzione e soprattutto essere ricordate, direi che l’obiettivo è stato centrato in pieno.

Della fatica di vivere

 

Il problema è stato: troppo gin, troppo fumo, troppe cagate di tutti i tipi. Così mi preparo un cocktail e mi accendo una sigaretta.
John Cheever

 

Confesso di avere un debole per i racconti.
Mi affascina la completezza che riescono a esprimere in poche pagine, la loro sintesi che non tralascia però nessun particolare.

John Cheever è stato un grande scrittore, soprattutto di racconti. Opere in cui racconta, con una sorta di benevola spietatezza, la borghesia americana di provincia.

Di Cheever ho da poco terminato di leggere i suoi diari, pubblicati in Italia col titolo Una specie di solitudine (l’originale inglese si intitola più prosaicamente The journals of John Cheever).
È stata una lunga lettura, durata alcuni anni: non tanto per le 500 pagine del volume, ma perché si tratta di un libro estremamente denso e doloroso, difficile da leggere non per lo stile sempre preciso seppur venato di grande lirismo, ma per i temi che tratta.

In questi diari Cheever si mette completamente a nudo, raccontando le sue debolezze, i suoi tanti momenti di crisi e sofferenza, i pochi giorni felici. I temi sono spesso scabrosi, soprattutto se si considera che i diari vennero scritti tra la fine degli anni ’40 e il 1982: alcolismo, impotenza, omosessualità, frustrazione.

Cheever li affronta con lucidità, con una visione che passa dalla sofferenza interiore a una chirurgica analisi esterna. Il tutto con una scrittura sempre al servizio della chiarezza e mai compiaciuta, seppure di grande potenza evocativa.

Ci ho messo tanto tempo per leggerlo, dicevo.
Non solo per il dolore che a volte impediva di proseguire la pagina, ma soprattutto per le riflessioni che ogni singola pagina impone.
Riflessioni che alla fine ci fanno scoprire che non siamo né migliori né peggiori degli altri. Ma che abbiamo tutti dei demoni che ci abitano.
E che forse raccontarli serve: se non a farli fuggire, almeno a esorcizzarli.

Vino in abbinamento
Come la lettura, anche la scelta del vino è stata lunga e sofferta. Il vino è gioia, condivisione, spensieratezza: aggettivi che stridono se affiancati al libro di Cheever. Ho deciso quindi di prendere un’altra strada, di scegliere un vino che potesse accompagnare la lettura anche per molti giorni, addirittura mesi. E ho scelto un Madeira, che per le sue caratteristiche può durare nel tempo anche a bottiglia aperta per lunghi periodi, accompagnando senza cedimenti la lettura.

I vini che non capisco

 

Se ti droghi ti capisco, perché il mondo fa schifo. Se non lo fai ti ammiro, perché sei in grado di combatterlo.
Jim Morrison

 

Ho la fortuna di poter assaggiare tanti vini. E anche la presunzione di essere ormai in grado di giudicare quando un vino è fatto bene e quando non lo è.
Ma ci sono dei vini che, seppur fatti bene – anche molto bene – non riesco a capire e ad apprezzare.

Sono vini che ho incrociato spesso e che, come sempre faccio, ho giudicato senza pregiudizi. Spesso, anzi, mi è capitato di degustarli alla cieca.
Sono vini unanimemente osannati da critica e pubblico: le classiche bottiglie che mettono tutti d’accordo.
Sono vini che non si possono neanche inquadrare in una precisa categoria, perché si va dal bianco al rosso, dal nord al sud, dal grande produttore e piccolo artigiano, dal vino convenzionale a quello “naturale”.

Faccio tre esempi, omettendo il nome: non per mancanza di coraggio ma per una sorta di etica personale. Se poi non potete vivere senza sapere quali sono, scrivetemi e (forse) vi risponderò.

Il primo è l’essenza del vino contadino: un rosso il cui nome evoca il mito e l’artigianalità. Poche e costose bottiglie, difficili da trovare e venerate quasi come reliquie.
Ne avrò assaggiate una decina: annate diverse, da quelle più datate a quelle più recenti. E non ho mai trovato un vino pulito, preciso, coinvolgente. Sempre qualche difetto, più o meno evidente. Anche aspettando con religiosa pazienza qualche ora o addirittura qualche giorno. Sfortuna? Può essere. Nel dubbio riproverò.

Il secondo è sempre un rosso, figlio di un territorio stretto tra mare e montagna. Chi lo produce è stato pioniere del biologico prima e del biodinamico poi, con grande rispetto della terra e dell’uva. Il vino è caldo, ricco, denso. Troppo per il mio gusto, che non disdegna le emozioni forti ma che rifugge i frappè alcolici. Che la confettura la preferisco spalmata sul pane e non colata in un bicchiere.

Il terzo è un vino che piace proprio a tutti: perché è fatto per piacere a tutti. Uno dei passiti italiani più celebrati. Un vino che ti seduce appena lo avvicini al naso, che ti promette sorsi e sorsi di assoluto godimento. Ma, appena lo assaggio, mi induce a cercare altro: troppa materia, troppo alcol, troppa glicerina. Quella che non è troppa, e che anzi manca, è la freschezza, che lo renderebbe sì bevibile all’infinito.

Gusto personale? Certo.
Snobismo? Forse.
Ma anche una ricerca altrettanto personale che dopo anni di assaggi mi ha portato a privilegiare, oltre alla pulizia, una piacevolezza fatta di bevibilità ed equilibrio, di leggiadria e sapore.
E che rifugge da una certa omologazione che, su piani molteplici e differenti, spesso infetta molti produttori.