Cicatrici

 

«Credo che la maturità non porti nessuna esperienza» disse. «O dovrei dire che l’esperienza non porta nessuna maturita?»
Juan Josè Saer, Cicatrici

 

Tutti noi abbiamo delle cicatrici.
E non parlo del ricordo della brutta sbucciatura che ci siamo fatti da bambini o dei punti di sutura di un’operazione chirurgica. Parlo delle cicatrici che segnano la nostra vita e la nostra mente.

Ricordiamo tutti almeno un episodio negativo nel nostro vissuto, le cui conseguenze più o meno sovente tornano a farsi sentire, oppure sono subdolamente latenti ma pronte ad aggredirci quando meno le attendiamo.

Ed è proprio di questo che parla Cicatrici, romanzo dello scrittore argentino Juan Josè Saer.

(Autore pochissimo conosciuto in Italia, dove le sue opere sono state tradotte e pubblicate da poco, Saer nacque in Argentina nel 1937 da immigrati siriani; nel 1968 si trasferì in Francia, dove affiancò all’attività di professore universitario quella di scrittore. Morì a Parigi nel 2005, lasciando una dozzina di romanzi, nove raccolte di racconti, una raccolta di poesie e alcuni saggi.)

Cicatrici è un libro preciso e doloroso, quasi chirurgico nell’esplorare e mettere a nudo le debolezze umane. Quattro lunghi capitoli, solo apparentemente staccati l’uno dall’altro, che affrontano vizi, debolezze e tormenti di quattro personaggi, le cui cicatrici sono vive e pulsanti.

E a renderle ancor più vive e pulsanti è la scrittura di Saer, che pur figlia dei grandi maestri argentini – sicuramente Borges, ma anche Roberto Artl e Juan Carlos Onetti – si rivela personale e di grande raffinatezza, con una grande padronanza tecnica che non è mai semplice compiacimento ma umile strumento al servizio della narrazione.

Si termina la lettura con i nervi scoperti, con le nostre personali cicatrici che fanno male; più consapevoli della loro presenza ma anche più forti nel sopportarle.

Vino in abbinamento
Sono banale, ma il vino è sempre legato a momenti e ricordi leggeri, felici, spensierati: è molto difficile che una bottiglia riporti a galla dolore o malinconia. Ma, pensandoci bene, può anche capitare. A me è successo, con un grande Barbaresco: il Gallina 2010 di Piero Busso.

Io e il sake

 

Il tetto si è bruciato:
ora
posso vedere la luna.
Mizuta Masahide

 

Nell’estate del 2018 rimasi colpito da un breve filmato dove, in poco più di due minuti, veniva spiegato cosa è il sake. Ne fui colpito non solo perché l’argomento mi interessava, ma soprattutto per la chiarezza e la brillantezza di chi parlava.
Fatto sta che appena terminata la visione interrogai subito Google e scoprii che in Italia si organizzava un corso per diventare Sake Sommelier, il cui docente era lo stesso protagonista del filmato, Lorenzo Ferraboschi.

Ecco come è iniziato il mio percorso nel modo del fermentato di riso giapponese.
Il corso ovviamente l’ho fatto, ho sostenuto e passato l’esame e da ormai più di due anni sono Sake Sommelier Certificato SSA (Sake Sommelier Association).

Arrivando dal mondo del vino avevo due alternative per approcciarmi al sake: fare continui paragoni oppure cancellare – temporaneamente – tutto quello che ho imparato e insegno.
Ho optato per la seconda strada, e sono sempre più convinto di aver fatto la scelta corretta.
Perché se e vero che ci sono alcuni punti di contatto tra sake e vino, le differenze sono tante, così come estremamente diversa è la degustazione, che mette in discussione i parametri a cui ero abituato.

Senza dimenticare la diversa cultura che ha dato origine al sake: cultura che con le sue tradizioni e con il suo approccio alla produzione rispecchia perfettamente il Giappone.

Sono così entrato in un mondo vasto, variegato e complicato, ma proprio per questo affascinante.
Perché non esiste un sake, ma esistono tantissime tipologie di sake (e qui il paragone col vino ci sta tutto) tra cui a volte districarsi non è facile.
E proprio per il suo essere così sfaccettato, il sake ha grandi potenzialità, soprattutto nell’abbinamento a tavola. E non solo con la cucina giapponese; anzi, osando un po’ diventa il perfetto compagno anche delle preparazioni italiane più tradizionali.
Ma attenzione: non si tratta di un avversario vino, bensì di una sorta di fratello o di amico, in grado di sostituirlo senza però mai metterlo da parte.

Questo è anche quello che ho cercato di trasmettere nelle (purtroppo poche) serate di divulgazione che tra un confinamento e l’altro sono riuscito a organizzare.
E ho sempre trovato un pubblico non solo attento e curioso, ma anche entusiasta e conscio che il sake non è solo una moda ma qualcosa di molto più solido e concreto.

Di acqua e di vino

 

Quelli che scrivono con chiarezza hanno dei lettori, quelli che scrivono in modo ambiguo hanno dei commentatori.
Albert Camus

 

Oltre che di Fedez, in questi giorni si è parlato molto del fatto che la Comunità Europea concedesse la possibilità di aggiungere acqua al vino. E come sempre accade – per lo meno quando si parla di vino, non so se lo stesso valga per Fedez – in giro c’è tanta, troppa, confusione. Anche perché ad occuparsi della notizia sono spesso giornalisti non specializzati.

Cosa è successo?
È successo che in sede di commissione europea si sta studiando l’opportunità di permettere ai produttori di dealcolizzare il vino: sia per ridurre i volumi alcolici sempre più alti che le temperature elevate comportano, sia per offrire al consumatore un prodotto più “light”.

Non entro nel merito della questione: questa non è la sede e non ne ho le competenze. Vi invito però a leggere il commento di Michele Serra su “L’amaca” dell’8 maggio scorso (lo trovate su questa pagina Facebook ).

La cosa che mi preme sottolineare è che nessuno, né in sede europea né in Italia, ha mai parlato di allungare il vino con l’acqua.
Ma, misteri del giornalismo non specializzato e ricerca del sensazionalismo, l’orrore del vino annacquato ha invaso il mondo del vino, suscitando reazioni più o meno sdegnate, dibattiti e anche gli inevitabili meme.
Tanto rumore per nulla, direbbe il Poeta: da Bruxelles e dal Ministero delle Politiche Agricole sono subito arrivate le smentite (ovviamente riportate con molto meno clamore della prima notizia) e soprattutto la precisazione che nessuno ha mai parlato di aggiungere acqua al vino.

Spero vivamente – pia illusione, la mia – che gli estensori di questi articoli finalmente si documentino: verranno tra l’altro a conoscenza del fatto che già adesso il vino è composto per almeno l’85% di acqua.

L’apparenza non inganna

 

L’eleganza è quella qualità del comportamento che trasforma la massima qualità dell’essere in apparire.
Jean-Paul Sartre

 

Il Roero è una terra a cui sono particolarmente legato; per ragioni di sangue, visto che i miei nonni materni erano originari di questa zona.
E, proprio per ragioni di appartenenza, ho avuto modo di viverlo, soprattutto in gioventù, quando almeno un mese delle vacanze scolastiche passava tra le rocche, i castagneti e le (allora poche) vigne.

Perché la vite, presente da sempre in quest’area, non è mai stata monocultura come in altre zone, condividendo spazi e paesaggi con frutteti e boschi.

Il Roero si trova sulla sinistra idrografica del fiume Tanaro (che lo separa dalle Langhe) e la pianura di Carmagnola, in un territorio dal suolo prevalentemente sabbioso: qui sino a 2 milioni di anni fa c’era il mare, e i fossili che ancora adesso si trovano nelle vigne ne sono dimostrazione lampante. Ma tutta la zona presenta una complessità geologica molto maggiore, passando dal gesso all’argilla per arrivare alle marne.

Se a questo aggiungiamo un clima unico, caratterizzato dalla quasi totale assenza di riserve idriche, dalla poca piovosità e da forti escursioni termiche, si capisce bene che ci trova di fronte a un territorio dalle caratteristiche praticamente irripetibili.

Così come è quasi unica la presenza di due vitigni, uno a bacca bianca e uno a bacca nera, che sanno esprimere entrambi vini di elegante personalità: arneis e nebbiolo.

Ottenuta la DOC nel 1985 e la DOCG nel 2005, l’ultima rivoluzione normativa roerina è datata 2017: oltre a essere state introdotte 135 Menzioni Geografiche (terza zona in Italia dopo Barbaresco e Barolo) è stata data la possibilità di non menzionare la parola Arneis per indicare il Roero bianco – scelta molto coraggiosa – e, sempre per la versione in bianco, l’introduzione della menzione “Riserva”, atta a raccontare e valorizzare il potenziale evolutivo dell’uva arneis.

Per comunicare tutto questo il Consorzio di Tutela del Roero ha deciso di creare quattro etichette che andranno a vestire le bottiglie istituzionali: il Roero bianco, il Roero e le due versioni Riserva.

 

Presentate a inizio 2021, sono state rilanciate lo scorso 22 aprile durante un webinar dal titolo “Roero DOCG: arte, territorio e cultura”.

Opera dell’artista Feny Parasole, originaria di Bra e nota a livello internazionale, e realizzate dallo studio torinese Labelcinque, le quattro etichette richiamano sia la vite, con il tralcio stilizzato delle versioni Riserva, ma soprattutto il territorio: c’è il bianco del terreno, l’azzurro dell’antico mare, il giallo e il rosso dei vini.

Ma oltre che evocative le etichette a parer mio sono molto belle, eleganti e leggiadre: come molti dei vini prodotti nella zona.

E se il loro scopo è quello di attirare l’attenzione e soprattutto essere ricordate, direi che l’obiettivo è stato centrato in pieno.