Della fatica di vivere

 

Il problema è stato: troppo gin, troppo fumo, troppe cagate di tutti i tipi. Così mi preparo un cocktail e mi accendo una sigaretta.
John Cheever

 

Confesso di avere un debole per i racconti.
Mi affascina la completezza che riescono a esprimere in poche pagine, la loro sintesi che non tralascia però nessun particolare.

John Cheever è stato un grande scrittore, soprattutto di racconti. Opere in cui racconta, con una sorta di benevola spietatezza, la borghesia americana di provincia.

Di Cheever ho da poco terminato di leggere i suoi diari, pubblicati in Italia col titolo Una specie di solitudine (l’originale inglese si intitola più prosaicamente The journals of John Cheever).
È stata una lunga lettura, durata alcuni anni: non tanto per le 500 pagine del volume, ma perché si tratta di un libro estremamente denso e doloroso, difficile da leggere non per lo stile sempre preciso seppur venato di grande lirismo, ma per i temi che tratta.

In questi diari Cheever si mette completamente a nudo, raccontando le sue debolezze, i suoi tanti momenti di crisi e sofferenza, i pochi giorni felici. I temi sono spesso scabrosi, soprattutto se si considera che i diari vennero scritti tra la fine degli anni ’40 e il 1982: alcolismo, impotenza, omosessualità, frustrazione.

Cheever li affronta con lucidità, con una visione che passa dalla sofferenza interiore a una chirurgica analisi esterna. Il tutto con una scrittura sempre al servizio della chiarezza e mai compiaciuta, seppure di grande potenza evocativa.

Ci ho messo tanto tempo per leggerlo, dicevo.
Non solo per il dolore che a volte impediva di proseguire la pagina, ma soprattutto per le riflessioni che ogni singola pagina impone.
Riflessioni che alla fine ci fanno scoprire che non siamo né migliori né peggiori degli altri. Ma che abbiamo tutti dei demoni che ci abitano.
E che forse raccontarli serve: se non a farli fuggire, almeno a esorcizzarli.

Vino in abbinamento
Come la lettura, anche la scelta del vino è stata lunga e sofferta. Il vino è gioia, condivisione, spensieratezza: aggettivi che stridono se affiancati al libro di Cheever. Ho deciso quindi di prendere un’altra strada, di scegliere un vino che potesse accompagnare la lettura anche per molti giorni, addirittura mesi. E ho scelto un Madeira, che per le sue caratteristiche può durare nel tempo anche a bottiglia aperta per lunghi periodi, accompagnando senza cedimenti la lettura.

I vini che non capisco

 

Se ti droghi ti capisco, perché il mondo fa schifo. Se non lo fai ti ammiro, perché sei in grado di combatterlo.
Jim Morrison

 

Ho la fortuna di poter assaggiare tanti vini. E anche la presunzione di essere ormai in grado di giudicare quando un vino è fatto bene e quando non lo è.
Ma ci sono dei vini che, seppur fatti bene – anche molto bene – non riesco a capire e ad apprezzare.

Sono vini che ho incrociato spesso e che, come sempre faccio, ho giudicato senza pregiudizi. Spesso, anzi, mi è capitato di degustarli alla cieca.
Sono vini unanimemente osannati da critica e pubblico: le classiche bottiglie che mettono tutti d’accordo.
Sono vini che non si possono neanche inquadrare in una precisa categoria, perché si va dal bianco al rosso, dal nord al sud, dal grande produttore e piccolo artigiano, dal vino convenzionale a quello “naturale”.

Faccio tre esempi, omettendo il nome: non per mancanza di coraggio ma per una sorta di etica personale. Se poi non potete vivere senza sapere quali sono, scrivetemi e (forse) vi risponderò.

Il primo è l’essenza del vino contadino: un rosso il cui nome evoca il mito e l’artigianalità. Poche e costose bottiglie, difficili da trovare e venerate quasi come reliquie.
Ne avrò assaggiate una decina: annate diverse, da quelle più datate a quelle più recenti. E non ho mai trovato un vino pulito, preciso, coinvolgente. Sempre qualche difetto, più o meno evidente. Anche aspettando con religiosa pazienza qualche ora o addirittura qualche giorno. Sfortuna? Può essere. Nel dubbio riproverò.

Il secondo è sempre un rosso, figlio di un territorio stretto tra mare e montagna. Chi lo produce è stato pioniere del biologico prima e del biodinamico poi, con grande rispetto della terra e dell’uva. Il vino è caldo, ricco, denso. Troppo per il mio gusto, che non disdegna le emozioni forti ma che rifugge i frappè alcolici. Che la confettura la preferisco spalmata sul pane e non colata in un bicchiere.

Il terzo è un vino che piace proprio a tutti: perché è fatto per piacere a tutti. Uno dei passiti italiani più celebrati. Un vino che ti seduce appena lo avvicini al naso, che ti promette sorsi e sorsi di assoluto godimento. Ma, appena lo assaggio, mi induce a cercare altro: troppa materia, troppo alcol, troppa glicerina. Quella che non è troppa, e che anzi manca, è la freschezza, che lo renderebbe sì bevibile all’infinito.

Gusto personale? Certo.
Snobismo? Forse.
Ma anche una ricerca altrettanto personale che dopo anni di assaggi mi ha portato a privilegiare, oltre alla pulizia, una piacevolezza fatta di bevibilità ed equilibrio, di leggiadria e sapore.
E che rifugge da una certa omologazione che, su piani molteplici e differenti, spesso infetta molti produttori.

Alla ricerca della felicità

 

Densamente spopolata è la felicità.
(CSI, Bolormaa)

 

Tra i tanti allievi che hanno accompagnato i miei ormai dodici anni di docenza Ais, qualcuno è rimasto impresso più di altri.

Uno di questi spiccava non solo per il suo abbigliamento elegantemente fuori dagli schemi e per la gentilezza nei modi, ma anche per una sorta di inquietudine che traspariva dai sui occhi.

Anche se con lunghe pause, sono sempre rimasto in contatto con Paolo Bonesso durante i suoi numerosi girovagare per il mondo.
Ultimamente, grazie a una comune amica, ho avuto modo di rivederlo e di condividere con lui qualche bottiglia. E ho scoperto che ha al suo attivo ben due romanzi.
Il secondo si intitola Le felicità nascoste e ha come sottotitolo Memorie involontarie di un bevitore di vino.

La sinossi del romanzo è semplice: un uomo giunto al suo centesimo compleanno rievoca, grazie a delle bottiglie di vino, episodi e persone del suo passato.

Ma il libro è decisamente più ricco e denso del mio scarno riassunto.

Innanzitutto è doveroso precisare che non parla di vino, ma che il vino è un semplice pretesto, visto che si sarebbe potuto tranquillamente ricorrere a una canzone, a un film, al colore di un tramonto, alla forma di una foglia.

Il libro è denso e doloroso, con un respiro a tratti profondo e disteso e a tratti veloce e quasi affannoso.
I personaggi che lo popolano – alcuni scavati nel profondo, altri solo abbozzati – riescono comunque tutti vivi e ci troviamo a vivere e soffrire con loro, quasi li avessimo conosciuti anche noi. E Paolo li accompagna con una scrittura sempre precisa, a volte secca e quasi scarna, a volte più ricca e poetica.

Ma soprattutto Paolo racconta se stesso, le sue emozioni, le sue (tante) malinconie, i suoi rimpianti e i suoi istanti felici. E questo suo mettersi a nudo, oltre a essere coraggioso, è impreziosito dalla prosa, emozionata ma sempre controllata.

Il vino, da pretesto narrativo, a fine lettura diventa quasi necessario per cercare consolazione e oblio. E magari per aiutare anche noi a ricordare.

Vino in abbinamento
Che vino abbinare a un libro che ha il vino come filo conduttore? Sicuramente un vino della memoria, un vino che ci porta alla mente il passato o delle consuetudini ancora vive, una sorta di madeleine alcolica. Io non scelgo un vino bensì un vermouth: il Punt e Mes che mia nonna mi offriva immancabilmente – e sempre meno diluito con acqua man mano che crescevo – ogni volta che andavo a trovarla.

Steven Spurrier, il visionario che cambiò la storia del vino

 

Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia.
(Erasmo da Rotterdam)

 

Ci sono pochi uomini che possono vantare di aver cambiato la storia del vino. Uno di questi è sicuramente Steven Spurrier, che ci ha lasciati esattamente un mese fa, lo scorso 9 marzo.

Nato a Cambridge nel 1941, dopo essersi laureato alla London School of Economics e nel 1965 entra nel mondo del vino come apprendista presso il più antico mercante di vino londinese.
Nel 1970 si trasferisce a Parigi, dove rileva una piccola enoteca. La sua Les Caves de la Madeleine è subito innovativa: ai clienti vengono proposti i vini in degustazione prima del loro acquisto.
Nel 1973 fonda L’Academie du Vin, la prima “scuola del vino” privata in Francia.
Nel 1988 torna nel Regno Unito, occupandosi di consulenze e scrivendo di vino, come editor di Decanter e come autore di numerosi testi divulgativi, attività che ha proseguito sino alla sua scomparsa.
Dal 2001 produce anche spumante nel Dorset, con l’etichetta Bride Valley.

Ma la storia di Steven Spurrier è indissolubilmente legata a una data: 24 maggio 1976.
Quel giorno, passato alla storia come Le jugement de Paris, vide sfidarsi in una degustazione alla cieca 6 cabernet e 6 chardonnay californiani contro 4 Bordeaux e 4 Borgogna bianchi. A prevalere furono due vini californiani: il cabernet Stag’s Leap Wine Cellar e lo chardonnay Chateau Montelena.
Ma la vera vincitrice fu la viticoltura californiana, che da quell’evento prese lo slancio per una crescita letteralmente esponenziale e da quel giorno in poi la storia e la geografia del vino non furono più le stesse.

Basterebbe un evento di questa portata per giustificare una carriera: ma tutta la vita professionale di Spurrier è stata segnata da una forza visionaria con pochi uguali.

Se a soli 35 anni, in un mondo come quello del vino con forte tendenza alla gerontocrazia, aveva concepito e realizzato un evento di portata unica ed enorme, anche prima Spurrier non aveva scherzato. Oggi le degustazioni in enoteca oggi la norma, ma non lo erano di sicuro nel 1970, così come negli stessi anni insegnare il vino era ancora attività decisamente elitaria e riservata ai professionisti della ristorazione.

Occorrevano coraggio, visione, determinazione e una buona dose di sfrontatezza per sovvertire il sistema – ricordatevi cosa successe a Parigi e poi in Europa nel 1968 – e Spurrier ha incarnato tutte queste qualità, incarnando la figura del perfetto divulgatore di vino, scendendo dal piedistallo e cercando di portarlo al pubblico, sempre con grande professionalità.

E forse il pacato signore dal guardaroba elegantemente démodé che in questi giorni è comparso in ogni sito che parla di vino, più che un ricco e gaudente borghese deve essere visto come un lucido rivoluzionario.

Celebriamolo dunque, con la speranza che un po’ della sua lucida visionarietà torni a illuminare un mondo che pare stancamente avvolgersi sempre più in se stesso.