Take it easy

Il vino rende più facile la vita di tutti i giorni, meno affrettata, con meno tensioni e più tolleranza.
(Benjamin Franklin)

 

Lo scorso ottobre, ringraziando per il conferimento del riconoscimento come Miglior Viticoltore Italiano 2020, Walter Massa ha dedicato il premio “(…) a tre strutture fantastiche italiane che fanno bere il vino buono. Sto parlando di Ronco, San Crispino e Tavernello che sono più costosi di tanti vini venduti in bottiglie di vetro in tappo di finto sughero. Ringrazio l’1,80 euro che c’è sullo scaffale al supermercato in Italia che fa bere il vino a tutti, contro l’1,70 euro di tanti vini italiani muniti di fascetta, DOCG e DOC. È vergognoso che ci siano bottiglie di vetro a meno di 2 euro l’una.”

Quella di Walter Massa era una lucida provocazione, volta a far riflettere su quello che il mercato offre, soprattutto nei canali della grande distribuzione.

Chi mi segue sa che non è la prima volta (leggi qui) che parlo dei vini in brik, spesso ingiustamente trascurati, per eccesso di snobismo, dagli addetti ai lavori.

Così, per 1 euro e 35 centesimi (approfittando di ben 20 cent di sconto) mi sono procurato l’ultima versione del Tavernello, quella con l’indicazione del millesimo in etichetta.
E l’ho assaggiato.

Prima di parlare del vino occorre spendere due parole sul packaging.
Il brik, rispetto alla bottiglia, presenta un enorme vantaggio in termini di comunicazione. C’è molto più spazio: per scrivere, per raccontare, per informare.
E i signori della Caviro sono stati decisamente bravi a sfruttare l’occasione. Sebbene il lato principale non brilli per originalità e design, le altre tre facce sono un ottimo esempio di comunicazione: chiara, moderna e ben fatta; un preciso racconto della forza e dell’impegno ecologico dell’azienda.

E il vino?
Il vino – annata 2020 – è piacevole e fresco, con le note floreali che prevalgono su quelle fruttate. L’assaggio non presenta nessuna asperità e lo si beve senza pensarci troppo su: un tannino appena accennato, una piacevole freschezza. Lo deglutisci e te lo sei dimenticato, ma non disdegni un altro sorso.

Un prodotto più che dignitoso: perfetto per una grigliata estiva con gli amici, dove l’ultimo dei pensieri deve essere il vino e utilizzare un bicchiere di carta anziché un calice di cristallo non è una bestemmia.
Ma anche abbinato a due fette di salame e a delle chiacchiere piacevoli lo si finisce in un amen: un gregario fedele che porta le borracce e che ti scorta sicuro sino alla fine.

Chiaro che se si cerca un minimo di identità, di espressione di vitigno o territorio, non è il vino che fa al caso nostro.
Ma per poco più di un euro credo che non si possa bere meglio.

Botticino: i vini del marmo

Povera gente! L’Arte non è sbriciolare la propria anima; è di marmo o no, la Venere di Milo?
(Paul Verlaine, Épilogue)

 

Percorrendo l’autostrada A4 in direzione Venezia, poco dopo l’uscita di Brescia alla sinistra del viaggiatore compaiono delle imponenti cave di marmo. Siamo a Botticino, nome che dice poco ai più ma che rappresenta un’autentica eccellenza.

Col marmo di queste cave, tutelato dalla denominazione Botticino Classico, sono stati costruiti non solo molti importanti edifici della vicina Brescia, ma anche l’Altare della Patria a Roma, il Teatro alla Scala a Milano, la Grand Central Terminal e il basamento della Statua della Libertà a New York.

Anche qui, come in tutta la Pianura Padana, nel Mesozoico (tra i 250 e i 65 milioni di anni fa) c’era un mare lagunare. Il processo di sedimentazione e cristallizzazione dei fanghi calcarei presenti sul fondo di questo mare portò, tra i 190 e i 60 milioni di anni or sono, alla formazione di un giacimento di pietra calcarea.
Ma l’unicità del marmo di Botticino è la sua varietà cromatica, dovuta alla presenza di materiale organico e inorganico nella base di carbonato e calcare. (Se vi interessa, il nome scientifico è micrite.)
È invece fondamentale sottolineare che l’estrema compattezza di questo marmo lo rende particolarmente adatto all’utilizzo in esterno, dove coniuga bellezza e resistenza.

Ma Botticino vuol dire anche vino, con una Denominazione d’Origine ben precisa istituita nel 1968.

Barbera, schiava gentile, marzemino e sangiovese sono i vitigni che vengono utilizzati; il Botticino oltre che nel comune omonimo può essere prodotto anche in parte dei comuni di Brescia e Rezzato. L’immissione sul mercato può avvenire dal 1° giugno dell’anno successivo alla vendemmia, mentre per la Riserva occorre attendere due anni.

Il vino con il marmo condivide il territorio e nel marmo affonda letteralmente le sue radici, visto che sotto una cinquantina di centimetri di marne e argille troviamo le prime venature, che conferiscono una precisa impronta alle bottiglie che vengono prodotti nella zona.

L’altra caratteristica del territorio è il microclima, decisamente mediterraneo. La vallata è protetta dalle prealpi bresciane, che evitando l’avvicinarsi dei temporali estivi ma consentono una ventilazione ideale per lo sviluppo aromatico e la sanità delle uve.

In questo contesto opera l’azienda Noventa (qui il link al loro sito), che dagli anni ’70 ha recuperato l’antica tradizione vitivinicola della zona, assecondando i ritmi e le esigenze di natura e territorio.

Ho avuto l’opportunità di assaggiare due vini, che vi racconto brevemente.

L’Aura, di cui ho bevuto il millesimo 2019, è il primo rosato a base schiava gentile prodotto a Botticino, riprendendo la tradizione dei secoli scorsi che sfruttava la generosità dei grappoli molto grossi di questo vitigno.
Dopo essere state diraspate, le uve rimangono a contatto con le bucce per un’ora. Particolare curioso, il vino riposa per tutto l’inverno in contenitori d’acciaio posti all’esterno della cantina, affinché il gelo lo renda naturalmente stabile.
Il rosa è tenue e luminosissimo, il naso vede come attori principali la frutta e la pietrosa mineralità del territorio. Il bicchiere si svuota pericolosamente grazie alla saporita sapidità. Anche dopo un paio di giorni a bottiglia aperta il vino ha mantenuto freschezza e bevibilità, segno che un approccio naturale non va a compromettere la stabilità del prodotto.

Il Pià de la Tesa 2017 è invece un classico uvaggio di barbera, sangiovese, marzemino e schiava gentile (35, 35, 20 e 10, se vi interessano le percentuali precise). La vigna è esposta a sudest, riceve i raggi del sole tutto il giorno ed è circondata dalle cave di marmo. I grappoli sono selezionati, diraspati, e fermentati a temperatura controllata per 10 giorni con follature e rimontaggi delicati. La fermentazione malolattica avviene in vecchie botti di rovere da 10 hl, in cui il vino affina poi per circa 18 mesi; ancora 6 mesi di bottiglia e poi è pronto per essere messo in commercio.
Elegante e preciso sono i due aggettivi che meglio lo definiscono. Al naso sfilano prima la frutta, ancora ricca e vivace, poi spezie e una nota minerale di grande personalità. Vino perfettamente equilibrato, confortante e dal bel finale sapido. Anche in questo caso ho riassaggiato la bottiglia dopo un paio di giorni, ritrovandovi intatta l’esuberanza fruttata e accresciuta la complessità.

Una bella scoperta, insomma. Che dimostra che possono esistere territori vocati e tipici anche fuori dalle zone più note e blasonate. Territori che hanno solo bisogno di lavoro e passione per esprimere le loro potenzialità.