Farina o pistole?

Ricordate gli assalti ai supermercati all’inizio del lockdown? Con pasta, farina e lievito a riempire i carrelli degli italiani, timorosi di rimanere con dispensa e stomaco vuoti. D’altronde, se tra le icone del nostro cinema troviamo Alberto Sordi e Totò che si ingozzano di spaghetti una qualche ragione storica ci dovrà pure essere.

Ricordate invece cosa è stato preso d’assalto negli Stati Uniti? Bravi: le armerie. E se tutti sappiamo che negli USA è possibile acquistare un’arma con la stessa facilità con cui da noi si compra un etto di prosciutto, la cosa ci stupisce sempre: forse perché non riusciamo a capire la ragione per cui anziché di farina gli statunitensi preferiscano rifornirsi di colt o fucili automatici.

La lettura de Il figlio, opera seconda di Philipp Meyer pubblicata nel 2013, sicuramente può aiutare a comprendere questo fenomeno.

Immaginate una sorta di Cent’anni di solitudine dove il realismo magico di García Márquez perde tutta la sua magia per diventare cruda realtà. I Buendía qui si chiamano McCullough e vivono in Texas, e anche qui la saga si dipana per più generazioni, con un provvidenziale albero genealogico a inizio libro ad aiutare.

Quella dei McCullough è una storia di violenza, sempre cruenta e spesso gratuita, unico modo per risolvere ogni problema e abbattere ogni ostacolo gli si pari davanti. A partire dal capostipite Eli, rapito in giovane età dagli indiani, per arrivare a Jeanne Anne. L’unico che cerca – invano – di porre fine alla legge delle armi è Peter, il figlio di Eli: ma dalla sua biblioteca piena di classici poco può fare arginare un fiume di sangue che pare inarrestabile.

Violenza, sfruttamento – neri, messicani, pellerossa: non si fanno molte distinzioni – legge del più forte e ricorso alle armi. Secondo Meyer sono questi i principi fondanti di una nazione spesso avventatamente presa a modello. Perché il sogno americano è sì avere un’opportunità: che tutti possano detenere e – perché no – usare un’arma.

Vino in abbinamento. Non si beve vino in questo romanzo e, vista la generale approssimazione con cui viene trattato l’argomento da molti scrittori, la cosa non mi spiace affatto. Per controbattere a tutta la violenza che pervade le pagine occorre un vino caldo, rassicurante, quasi materno. Un vino che ci faccia sentire sicuri a casa. Un vino che, nonostante le differenti annate riconosci sempre. Ognuno di noi ne ha almeno uno. E uno dei miei è sicuramente il Vorberg della Cantina di Terlano.